Libertà

Libertà obbligatoria

“Un tempo non era permesso a nessuno di pensare liberamente. Ora sarebbe permesso, ma nessuno ne è più capace. Ora la gente pensa ciò che si suppone debba pensare. E questo lo considera libertà.” (O. Spengler)

Una finta democrazia contraddistingue l’assetto politico-sociale dell’intero mondo occidentale. L’establishment (il Sistema dominante) funziona come una “matrix” che orienta cultura, valori, credenze, comportamenti collettivi e persino i bisogni individuali. Una sorta di apparente contraddizione logica, alimentata dagli strumenti del Potere (la politica, i media, gli opinion leader), consente a tutti di credersi liberi, di coltivare sogni, speranze, illusioni e desideri indotti, nel culto della libertà di pensiero.
Non è il massimo della libertà quello in cui ognuno è libero di pensare quello che vuole, pensando di fatto esattamente quello che vuole la cultura dominante? Quale migliore mondo potremmo desiderare se in fondo siamo liberi di dire (quasi) tutto quello che vogliamo, e di fare (ipoteticamente) tutto quello che pensiamo (forse meglio: pensiamo di pensare!)?
Una condizione che Gaber smascherava con amara ironia, definendola “libertà obbligatoria”! Il trionfo del relativismo etico, del qualunquismo e dell’individualismo esasperato.
Viviamo dunque in una apparente libertà assoluta. Ma è un’illusione. Quella che noi chiamiamo “realtà” è solo un grande palcoscenico in cui siamo tutti chiamati a recitare un copione già scritto, a rivestire ruoli e parti che altri hanno deciso per noi. Una gigantesca finzione collettiva in cui ognuno galleggia ipocritamente in superficie fra le infinite verità che ci propina la realtà, con un criterio relativista in cui vale tutto e il contrario di tutto.
L’uomo medio dei nostri tempi pensa per-sentito-dire, crede cioè di pensare. In realtà utilizza concetti, argomentazioni, idee di altri, oppure influenzati dai giornali, dalla televisione, dai media. Quando riflette riesce tutt’al più ad attingere ai propri pregiudizi e alle credenze radicate, che resistono nella sua testa, nonostante mille evidenze contrarie. Quando si accalora, il livello del suo pensiero assurge a tifo da stadio, dove ovviamente ogni obiettività ed ogni ragionevolezza sono precluse.
Per sopravvivere in questa realtà sono possibili due vie. La più facile è quella dell’Individuo adattato, che si accontenta (senza saperlo) di un Io-minimo, funzionale alla realtà che passa, caratterizzato da una bulimica propensione a consumare beni, servizi e tecnologie che il progresso ci propina a piene mani, nella esaltazione illuministica della Ragione e della Scienza.
Un Io-minimo che deve negare la sua pochezza e nullità con la maschera della sua controfigura: un Ego megalomanico ed esibizionistico che, con le sue performance sul palcoscenico sociale, drammaticamente annega il senso di vuoto e l’assenza di significato della propria vita. La rappresentazione narcisistica sostituisce ed annulla la presenza di sé, la vera essenza della Persona.
La seconda strada è appunto quella della Persona. L’uomo diventa persona quando finalmente pensa con la propria testa e non si preoccupa più di conformare il suo pensiero a quello dell’opinione comune. Con prudente umiltà afferma ciò che pensa, senza nessuna pretesa di rappresentare la sola verità possibile, ma di dare il proprio contributo diretto alla costruzione di una comunità di esseri pensanti e non solo di cervelli all’ammasso. È un percorso tragico ed eroico, in cui l’individuo per elevarsi dalla nullità in cui rischia di precipitare deve cercare dentro se stesso la sua verità. Non importa quanto questa lo porti a sentirsi non adattato, non conforme, non in sintonia con il mondo esterno. È un dis-agio necessario se vogliamo recuperare l’agio di diventare se stessi, unici e per ciò stesso non omologabili. Se ci riusciamo, il senso di coesione, di integrità e di sintonia interiore ci ripagherà ampiamente della fatica di stare al mondo, in questo mondo, privilegiando la posizione mentale di chi sa assumere la giusta distanza.
La Persona vera ha piena consapevolezza del presente, sia quando viene a patti con la realtà esterna, sia quando ne esce e gioca con la sua realtà interiore, da cui attinge la gioia e la forza vera per dare senso alla sua esistenza terrena.
L’uomo mediocre è soddisfatto se pensa come tutti. L’uomo sapiente è soddisfatto se pensa come pochi. L’uomo saggio è soddisfatto se pensa come sé stesso. L’uomo libero è quello che attinge ai propri pensieri, al di là delle condizioni sociali e della cultura dominante.
Nelle relazioni affettive, compreso in amore, non si accontenta della verità dell’altro.
Si fida del proprio istinto, del proprio intuito, il suo pensiero è al suo servizio, non è il pensiero coartato della mente che lo governa.
Per questo fa paura, suscita ambivalenza: più solletica ammirazione e invidia, più viene allontanato e isolato.

L’illusione della libertà

“La libertà non è solo rosa e fiori: essere liberi vuol dire non avere guide, vuol dire non sapere se il tuo prossimo passo sarà giusto, sbagliato o addirittura fatale. Essere liberi significa cadere più degli altri, e farsi male più degli altri: ci vuole un gran coraggio a essere liberi!” (M. Dalcesti)

L’idea più comune della libertà è in realtà un mito o un’illusione romantica. Non esiste una libertà assoluta. Siamo esseri relazionali e viviamo tutti in relazione con altre persone e la realtà esterna. Il vincolo sociale implica, come minimo comune denominatore, la condivisione di norme, convenzioni, consuetudini, limiti che in sé sono funzionali a regolare i rapporti fra le persone nel contesto sociale.
In origine, questi vincoli sono stati posti come limitazione condivisa della libertà assoluta degli individui, per il cosiddetto bene comune. Le cose si sono complicate quando sono subentrate le istituzioni sociali, che con il tempo hanno finito con il perdere la funzione di protezione per cui sono nate e sono diventate sovrastrutture al di sopra delle persone. Istituzioni o organizzazioni sociali limitano la libertà di movimento degli individui a prescindere, dettando regole che il più delle volte con l’interesse vero delle persone hanno ben poco a che fare. Diventano cioè sovrastrutture sociali perverse, nel senso che hanno invertito il loro scopo originario di essere al servizio delle persone. Anziché assicurare il benessere e la libertà relativa, finiscono col diventare limitazioni della autonomia delle persone.

Che fare allora? Io credo che la sola libertà oggi possibile sia quella interiore. Un funzionale adattamento alle norme sociali, accompagnato da una equilibrata distanza dalle pressioni normative del sistema sociale. La vera libertà è una questione più mentale che materiale, più personale che sociale.
Questo significa attrezzarsi di una solida struttura mentale, in grado di essere quel tanto impermeabile alle intemperie e alla pervasività del mondo sociale. Gli altri esistono e vengo a patti con loro, sono anch’io altro per loro ma, almeno nella mia testa, cerco di essere io il padrone; penso e agisco in prima persona, difendo la mia conquistata autonomia, non accetto eccessive invasioni e soprattutto vigilo per non essere dominato e manipolato.
“Nessuno è libero se non è padrone di se stesso” (Epitteto).
Il paradosso è che l’aspirazione massima della maggior parte della gente sembra oggi esser diventata quella di essere liberi dagli impegni che ci opprimono, per potersi poi occupare delle cose che più ci piacciono. Fino a diventarne praticamente schiavi. L’aspirazione ad un’illusoria libertà dai doveri, diviene di fatto dipendenza di fronte ai piaceri. Per molti la libertà diviene soltanto ”la facoltà di scegliere le proprie schiavitù” (G. Le Bon). Una sorta di libertà condizionata che ci siamo imposti inconsapevolmente.
Già, i doveri. Ma che cos’è il dovere se non un piacere differito? Se io mi prodigo, mi sacrifico, faccio fatica a lavorare, studiare, ecc., lo faccio in funzione del raggiungimento di un piacere maggiore spostato più in là nel tempo. Che senso avrebbe il dovere per il dovere, come imperativo morale?
Il dovere ha senso solo se concepito nell’ottica della realizzazione personale. Solo se il mio piacere, il mio benessere, non ostacola il diritto dell’altro a perseguire i suoi obiettivi, allora il mio dovere, coincide anche con il piacere degli altri, contribuisce cioè al benessere collettivo (es. se mi impegno a fare tutti gli esami del piano di studi per laurearmi, perseguo un mio piacere più grande e nello stesso tempo con la mia istruzione contribuisco al miglioramento del progresso della mia comunità).
In questo senso il dovere non è limitativo della libertà. Al senso del dovere, è legittimo affermare un corrispettivo senso del godere.
La libertà è il potere di fare ciò che è bene, non semplicemente ciò che ci piace.

Fuga dalla libertà

“L’uomo crede di volere la libertà. In realtà ne ha una grande paura. Perché? Perché la libertà lo obbliga a prendere delle decisioni. E le decisioni comportano rischi.” (E. Fromm)

Se la libertà assoluta è solo un mito, il suo contrario è però un limite. Come rilevava Fromm, l’uomo crede di volere la libertà. In realtà ne ha una grande paura. La libertà lo obbliga ad assumersi delle responsabilità, per mantenere la propria indipendenza deve continuamente fare scelte e prendere decisioni. E tutto ciò comporta rischiare. Per questo desideriamo la libertà e nello stesso tempo ci creiamo mille fughe per evitarla.
Ci piace pensare alla libertà piuttosto che costruirci le condizioni concrete di una relativa ma realistica autonomia dagli inevitabili vincoli che ci pone la nostra vita quotidiana.
Il prezzo della perdita della libertà è alto, ciononostante continuiamo a preferire il vantaggio secondario che ci dà in cambio la condizione di dipendenza dagli altri. Ossia la possibilità di lamentarsi e di stare lontani da ogni impegno morale, personale e sociale.
Nonostante siamo convinti del nostro attaccamento alla libertà, la maggior parte di noi preferisce rimanere legata, vincolata, abbarbicata e dipendente da qualcosa o da qualcuno.
La paura della libertà condiziona le nostre scelte e limita lo “spazio psicologico di libero movimento”, che è vitale per la nostra salute mentale.
“La vita senza libertà è come un corpo senza lo spirito” (K. Gibran)

Libertà e felicità

“È molto facile, in nome della libertà esteriore, soffocare la libertà interiore dell’uomo.” (R. Tagore)

Se siamo felici o contenti oppure all’opposto infelici e insoddisfatti, siamo abituati a pensare che siano le cose e le persone, ciò che ci accade fuori di noi, a renderci tali. In realtà, non ci rendiamo conto che siamo noi che permettiamo che il fuori influenzi il dentro, il modo con cui noi reagiamo alle persone, alle cose o agli eventi della nostra vita. È la nostra propensione ad accogliere il mondo esterno che ci fa provare sentimenti e stati mentali positivi o negativi.
Nessuno, nessuna cosa, nessuna evenienza può renderci felici o scontenti, se non siamo noi in qualche modo ad autorizzarlo. La felicità o l’infelicità non stanno “là fuori”!
Ciò che non si ha dentro non può essere cercato fuori di noi. I vuoti, i buchi che abbiamo dentro, non possono essere riempiti da cose esterne, se non in modo apparente, transitorio. Spesso ci illudiamo di trovare fuori, cercandolo nel mondo, un appagamento che può legittimamente venire solo da “dentro”, da qualcosa che noi stessi siamo in grado di crearci o suscitare.
Smettiamo allora di prendercela con mogli, mariti, figli, lavoro, amanti, ecc., perché il vero problema siamo solo noi stessi! Smettiamo di cercare oggetti, danaro, rapporti, attività per placare la nostra sete di serenità, non è “là fuori” che possiamo trovare pace. Smettiamo di pensare di usare, predare e poi di salvare il mondo. Bisogna prima provare a salvare se stessi.
“La fatica di vivere consiste nell’impresa disperata di contemperare mondo interiore ed mondo esterno” (A. Morandotti).
Un mondo di persone che sono in sintonia con il proprio mondo interiore, che sanno stare in piedi da sole, senza stampelle, senza eccessive dipendenze, senza continuare ad attribuire meriti o colpe agli altri, che si assumono sempre le proprie responsabilità, è già un mondo migliore.
Da subito, senza aspettare che altri facciano per noi ciò che appartiene solo a noi.La libertà di ciascuno di noi ha infatti un solo, unico e condiviso confine: la libertà degli altri.La mia libertà finisce esattamente dove comincia la tua. E viceversa.
È un confine invisibile ma inviolabile. Fondato sul rispetto, questo confine non limita il nostro cammino, ma determina i margini dei nostri diritti e dei nostri doveri.
All’interno di questi confini noi abbiamo il pieno potere e la responsabilità sull’utilizzo e la difesa della nostra stessa libertà.

Potere personale e libero arbitrio

“Il Signore creò l’uomo dalla terra e ad essa di nuovo lo fece tornare. Egli assegnò loro giorni contati ed un tempo definito, dando loro potere su quanto essa contiene. … Discernimento, lingua, occhi, orecchi e cuore diede loro per pensare. Li riempì di scienza e d’intelligenza e mostrò loro sia il bene che il male.
… e a ciascuno ordinò di prendersi cura del prossimo.”
(dal Libro di Siracide)

Evidentemente qualcosa deve essere andato storto durante questa distribuzione, perché gli uomini hanno attinto a piene mani a questi doni, ma non evidentemente al discernimento fra il bene e il male.
Così, nei secoli dei secoli, hanno abusato del potere del libero arbitrio e continuano a farlo, fino ai nostri giorni.
“… mentre si dichiaravano sapienti, gli uomini sono diventati stolti. Perciò Dio li ha abbandonati all’impurità secondo i desideri del loro cuore. … li ha abbandonati alla loro intelligenza depravata ed essi hanno commesso azioni indegne: sono colmi di ogni ingiustizia, di malvagità, di cupidigia, di malizia; pieni d’invidia, di omicidio, di lite, di frode, di malignità; diffamatori, maldicenti, nemici di Dio, arroganti, superbi, presuntuosi, ingegnosi del male, ribelli, insensati, sleali, senza cuore, senza misericordia. … E non solo commettono tali cose, ma anche approvano chi le fa.” (dalla I lettera di san Paolo ai Romani)

I credenti possono riconoscere uno spaccato della nostra realtà attuale in questa descrizione. Ma anche i non credenti debbono ammettere perlomeno che gli estensori della Bibbia sono malgrado tutto dei raffinati sociologi ante tempo.
“… Dio guardò la terra ed ecco, essa era corrotta, perché ogni uomo aveva pervertito la sua condotta sulla terra” (Gen 6, 1-22).
“Come avvenne nei giorni di Noè… Così accadrà nel giorno in cui il Figlio dell’uomo si manifesterà. Chi cercherà di salvare la propria vita, la perderà; ma chi la perderà, la manterrà viva” (Lc 17, 26-33).

La salvezza che oggi tutti auspichiamo, dalla decadenza in cui sembriamo precipitati – per responsabilità nostra e non per volere di Dio! – non può che venire scegliendo di vivere la nostra libertà (il nostro libero arbitrio) con piena consapevolezza.
Al di là della religione, seguire la “via indicata dal Signore” vuol dire far prevalere, nei sentimenti e negli atteggiamenti, le esigenze dello spirito prima ancora di quelli della carne.
L’umanità non ha colto appieno il significato del libero arbitrio (ossia la capacità di combinare volontà e libertà) che il Creato ci ha concesso. Se solo lo avessimo fatto, avremmo potuto costruire una società migliore, e potremmo servircene per cambiare il mondo. Con fatica certamente, ma anche con una prospettiva di senso, attraverso prove ed errori, salti in avanti e arretramenti, senza che niente sia dato per scontato, come ineluttabile destino.
Per richiamare l’uomo alle sue responsabilità, Gesù, facendosi compagno nella sofferenza, ci ha indicato un modo diverso di usare la libertà, ossia come possibilità attiva di dominare la nostra propensione al male, rivalorizzando l’amore di sé e dell’altro, per affermare quindi nuove possibilità di solidarietà e di comunità.

“La persona è un universo di natura spirituale dotato di libero arbitrio. Né la natura né lo Stato possono incidere su tale universo senza il suo consenso. E Dio stesso vi agisce in modo particolare: rispetta la sua libertà, nel cuore della quale tuttavia abita; la sollecita, non la costringe mai.” (J. Maritain).
Chi oggi urla tutta la sua rabbia e la sua indignazione contro la corruzione del mondo deve saper mantenere viva la promessa sul proprio avvenire e quello dell’umanità. L’uomo, malgrado tutto, ha un alleato in questa avventura: la Natura, Dio, o qualunque senso altro attribuiamo alla Vita, urla con noi contro il male, partecipa alla nostra indignazione e soffre con noi.
Ma nulla è definitivo, nulla è perduto! Dobbiamo però essere capaci di rinunciare al solo esercizio della libertà che abbiamo concepito, ossia quello della “volontà di potenza”. Bisogna recuperare invece “il potere della volontà”, che abbiamo abbandonato da tempo, in ossequio ad una parvenza di libertà, spesso illusoriamente delimitata fra le pareti di casa e il nostro privato personale.
Bisogna aspirare a ridiventare i protagonisti (soggetti) attivi della Storia, non gli oscuri destinatari (oggetti) passivi delle altrui decisioni. Il prezzo che dobbiamo pagare è quello della responsabilità personale. Troppo alto? Ci spaventa la responsabilità? Preferiamo continuare a sentirci vittime dei doveri, del lavoro, della famiglia, della società, della politica, ecc. ecc.?
E allora – come diceva F. Dostoevskij – continuiamo pavidamente a sprecare il più grande dono dell’Universo: “tutti sono infelici perché tutti hanno paura di proclamare il loro libero arbitrio”.
La libertà si conquista assumendosi la responsabilità delle proprie scelte.

Libertà e cambiamento

“Se non ci piace dove stiamo possiamo spostarci, non siamo alberi.” (Snoopy)

Dio probabilmente ha dato all’uomo una vita più lunga rispetto a quella degli animali, perché mentre gli animali vivono secondo l’istinto, e difficilmente sbagliano, l’uomo vive seguendo la (propria) ragione, e commette molti errori. Il libero arbitrio ci frega! Quello che doveva essere un dono di Dio, sembra diventata la tegola che ci piove in testa.
Quindi l’uomo ha la possibilità di utilizzare una parte della vita per fare sbagli, un’altra per poterli capire, e una terza per cercare di vivere senza sbagliare. Ma l’uomo utilizza appieno questa facoltà regalataci dalla Natura? Non del tutto.
Il cambiamento, che dovrebbe essere il fisiologico divenire delle vicende umane, è desiderato ma allo stesso tempo temuto ed osteggiato. Come in una matassa che dovremmo dipanare seguendone semplicemente il corso, la vita invece si ingarbuglia e i nodi attorcigliano il filo. Quando riteniamo di aver raggiunto un minimo di equilibrio, rimaniamo abbarbicati alla postazione e, di fatto, facciamo di tutto per non cambiare, anche quando è necessario, quando stiamo male e sarebbe auspicabile un nuovo equilibrio. Che può venire solo accettando di uscire dalla propria “zona di confort”, attraversando una fase di instabilità fino ad un nuovo accomodamento.
Se così non fosse, non avremmo imparato nemmeno a camminare (per andare solleviamo una gamba, la poggiamo in avanti e poi muoviamo l’altra, di fatto reggendoci su un solo arto e rischiando di cadere). Ogni cambiamento implica l’accettazione del rischio. Se invece continuiamo a fare quello che abbiamo sempre fatto, continueremo ad ottenere quello che abbiamo sempre avuto. Faremo sempre gli stessi errori.
Girando su se stessi, fermi sulle “gambe”, facendo sempre le stesse cose, perdiamo l’abitudine ad avanzare, privandoci della possibilità di vedere le cose in una prospettiva più ampia e di esercitare tutte le nostre potenzialità. Come un muscolo, lentamente tutto si atrofizza, si indurisce, si blocca.
Sostituire il noto con qualcosa che già conosciamo non è cambiamento. Il vero cambiamento, la vera rivoluzione, avviene abbandonando il noto per l’ignoto. Ogni cambiamento è possibile anzitutto dall’interno di noi stessi, cambiando prima il nostro modo di pensare i problemi e solo dopo la realtà.
“Non si trasforma la propria vita, senza trasformare se stessi.”(S. de Beauvoir)

Quando le cose non vanno, quando l’insoddisfazione della propria vita diventa viscerale, profonda e non più tollerabile, proprio quando siamo lì al bivio della rinuncia o della rassegnazione, è proprio questo il momento giusto per cambiare. Per farlo abbiamo bisogno di abbandonare la nostra rassicurante quotidianità, fatta ormai difensivamente di cose spente e poco edificanti.
La vita è come un’eco, diceva Joyce. Se non ti piace quello che ti rimanda, devi cambiare il messaggio che invii. Se non fai nulla e stai in silenzio, se non fai nulla per cambiare quello che non ti piace, il rumore di fondo di una vita spenta si fa ancora più assordante!
L’unico modo è decidere di prendere la parola e dire la tua. Forte e chiaro.
Se dunque la nostra vita non “gira”, non “funziona”, e le cose o le persone che abbiamo intorno non ci piacciono, dobbiamo per prima cosa liberarci della convinzione che siano le cose, siano gli altri a dover cambiare. È già difficile cambiare noi stessi, figuriamoci se abbiamo il potere di cambiare gli altri!
Il motivo vero, più profondo della nostra insoddisfazione sta sempre nella mancanza di potere che noi abbiamo su noi stessi. Un cambiamento vero e profondo inizia sempre da noi stessi. A cominciare proprio dalla convinzione di ciò che va cambiato e dalla consapevolezza di doverlo fare in prima persona.
Se aspettiamo che qualcosa cambi dall’esterno, ci condanniamo all’impotenza, a dipendere dagli altri o dagli eventi. Rimanendo magari inermi a compiangerci e a lamentarci. Dobbiamo smettere di attenderci che qualcuno faccia qualcosa per noi.
Anche nelle situazioni più difficili o impossibili da modificare, noi abbiamo sempre la possibilità di fare qualcosa. Abbiamo sempre l’opportunità di cambiare il nostro atteggiamento verso la causa della nostra insoddisfazione o sofferenza.
Da passiva rassegnazione ad una accettazione consapevole della nostra responsabilità sulla nostra vita. C’è una sola incontrovertibile legge da rispettare: se non riesci a cambiare nulla, non puoi pretendere che cambi qualcosa nella tua realtà. Se niente cambi, non cambia nulla!

“La vita è come un gioco a carte: la mano che ti viene servita è il determinismo; il modo in cui giochi è il libero arbitrio.” (S.J. Nehru)

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Circa l'autore:

Dr. Roberto Calia Psicologo Psicoterapeuta Milano
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