Il dolore e le avversità
“Le anime più forti sono quelle temprate dalla sofferenza. I caratteri più solidi sono cosparsi di cicatrici. Più a fondo vi scava il dolore, più gioia potete contenere.”
(K. Gibran)
Uno dei più grossi limiti che dobbiamo affrontare è la difficoltà ad accettare il dolore.
Mentre è naturale per tutti che la sofferenza faccia “star male”, molte persone reagiscono al dolore accentuando il malessere e amplificandone la percezione.
Il dolore diviene così dilatato soggettivamente, perché considerano inaccettabile, ingiusto, immeritato, sbagliato, “contro natura”. Cercano a tutti i costi qualche escamotage che possa azzerarlo istantaneamente, concentrando l’attenzione più sull’insopportabilità della sofferenza del momento, che non sulle soluzioni concrete a ciò che quel dolore ha generato.
È come se, per una convinzione illusoria, sostenuta dalle nostre concezioni culturali, il dolore venisse visto come un incidente di percorso, un’anomalia, una “sfortuna”, che – se fossimo stati più accorti e perfetti – avremmo potuto evitare.
Secondo questa concezione “magica” lo stato naturale dell’uomo è la felicità, che quindi viene concepita nella sua accezione “in negativo”, come assenza di dolore.
E perché mai la nostra vita, il nostro lavoro, i rapporti, le amicizie dovrebbero sempre filar lisci, senza una crisi o qualche volta perfino un fallimento? Chi siamo noi per essere esentati dal dolore?
Quando ci colpisce un evento doloroso, ci chiediamo stupiti “Perché è successo a me?”, senza però minimamente pensare di porci la stessa domanda ogni volta che proviamo un senso di felicità.
“Se accetto il sole, il caldo, l’arcobaleno, devo accettare anche il tuono, il fulmine e la tempesta” (K. Gibran).
Molti vorrebbero dunque provare solo emozioni e sentimenti positivi: gioia, serenità, felicità, amore. Temono a tal punto i loro opposti che piuttosto preferiscono “congelare” la propria affettività, vivendo in una condizione coartata di “neutralità emozionale”.
La vita implica l’accettazione degli opposti. Non è possibile la gioia senza il dolore, l’amore senza la paura, la vita stessa senza la morte.
La vita si sviluppa lungo un continuum dove ai due estremi ci sono le cose buone e quelle cattive.
Come sulla tastiera di un pianoforte, dove le migliori composizioni si estendono, in melodica armonia, dai toni alti ai bassi, per la delizia (o lo strazio) dei nostri sensi. Come in una sinfonia, la colonna sonora della nostra vita si suona essenzialmente sulle ottave centrali del pianoforte.
“Ciò che non mi uccide, mi rende più forte” (F. Nietzsche).
Essere felici non significa eliminare il dolore ma saperlo affrontare in modo adeguato. Felicità e dolore sono stati estremi lungo il continuum della vita, non sono condizioni permanenti e stabili della nostra esistenza.
La condizione “normale” della vita è uno stato di benessere equilibrato, non necessariamente esaltante o eclatante, una condizione in cui siamo in pace con noi stessi e il mondo esterno e che sappiamo mantenere, pur nelle mille difficoltà e vicissitudini quotidiane.
Nulla può diventare consapevolezza profonda senza un minimo di dolore.
Rassegnazione o accettazione
“Concedimi la serenità di accettare le cose che non posso cambiare, il coraggio di cambiare le cose che posso, e la saggezza per conoscere la differenza” (R. Niebuhr).
Non sempre ovviamente le cose si possono cambiare. Ci sono situazioni, interne o esterne a noi, che accadono al di là delle nostre intenzioni e della nostra volontà.
Qualche volta si deve prendere atto che la realtà non può essere cambiata, e bisogna trovare la forza per accettarla.
Non è sempre facile, ma è possibile. Anche di fronte alla difficoltà più grande noi possiamo comunque fare qualcosa, esercitare quel poco o tanto “potere” che abbiamo in ogni circostanza della vita. Se cambiare quello che non va non dipende da noi, a noi rimane la possibilità di cambiare il nostro modo di pensare e di approcciare il problema.
“Se qualcosa non ti piace cambiala; se non puoi cambiarla, cambia il tuo modo di pensare” (M. Angelou).
La passività di fronte agli eventi si chiama RASSEGNAZIONE e si accompagna sempre ad un vissuto depressivo di impotenza e fatalità.
“Non ci posso fare niente” è solo un’apparente rinuncia, è di fatto un malcelato “piangersi addosso” che nasconde il desiderio illusorio di una soluzione, impossibile o che forse potrebbe venire da qualcun altro. E che di fatto blocca il nostro andare avanti comunque.
Ma se decidiamo di accogliere pro-attivamente quello stesso stato di fatto, la rassegnazione diviene ACCETTAZIONE e quella che l’accompagna è una realistica consapevolezza su ciò che ci accade e l’inevitabile sofferenza che comporta.
Un dolore che diviene sempre più tollerabile, anche se comporta la disillusione dei nostri sogni grandiosi e delle nostre aspettative.
Una rinuncia parziale che non invalida tutto il resto della nostra vita.
Questo passaggio rinsalda la nostra autostima e attiva la capacità di cercare un nuovo equilibrio. Diviene così il segno positivo di un rinnovato potere sulla nostra mente.
Accettazione di sé
Alla base di tutto c’è l’accettazione di sé stessi. È importante confrontarsi con questo. Se la condizione in cui mi trovo è causa di malessere soggettivo, ben al di là della portata oggettiva del problema, è segno che faccio resistenza, che oppongo resistenza (fisica ma soprattutto psicologica).
E da dove proviene questa negazione, il rifiuto? Il più delle volte è frutto di una immagine idealizzata presente dentro di noi, una rappresentazione su come crediamo dovrebbero essere le cose. E come se costantemente fossimo in una comparazione perdente con qualcos’altro, con qualcosa che percepiamo come migliore di noi, di ciò che siamo. Viviamo in uno stato di perenne inadeguatezza.
Nell’accettazione dovremmo lasciar andare questi ideali, questi confronti, con ciò che ci distoglie da ciò che siamo in questo momento. Questo è il segreto: nell’accettare quelli che vediamo come nostri limiti, può affiorare l’idea di come star meglio.
Non accettando, più o meno coscientemente, faccio di tutto per oppormi, finendo in qualche modo di essere diverso da come sono ora. Mi distacco dal mio essere, mi allontano dal mio Io.
Se, al contrario, parto dall’accettazione di ciò che mi accade, cercherò di ritrovare la serenità, nel rispetto di me stesso.
Smetto di lamentarmi per come penso dovrei essere (più forte, più felice, più ricco, ecc.), rispetto a ciò che sono adesso.
Questo atteggiamento interiore non mi impedisce affatto di lavorare su di me per cercare realisticamente di diventare migliore.
“L’accettazione di sé non limita le aspirazioni, al contrario, le nutre. Perché ogni miglioramento partirà sempre da ciò che si è realmente” (A. Jodorowsky).
Accettarsi vuol dire amare sé stessi
in quanto persona degna di rispetto.
“Le cose che non accettiamo con la mente, fanno male al corpo. Ma se le osserviamo con lo sguardo dell’anima si trasformano.”
(Roberto Calia)
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Circa l'autore:
Dr. Roberto Calia Psicologo Psicoterapeuta Milano