
Profezie per i nostri tempi
“Essi non verranno su navi da guerra, non devasteranno col fuoco, ma i libri saranno il loro unico cibo, e con le mani impugneranno l’inchiostro.
Non con lo spirito dei cacciatori o con la feroce destrezza del guerriero, ma mettendo a posto ogni cosa con parole morte.
Avranno l’aspetto mite dei monaci, pieni di fogli e di penne.
Voi li riconoscerete da questi segni.
Lo spezzarsi della spada, e l’uomo che non è più un cavaliere libero, capace di amare o di odiare il suo Signore.
E poi il segno del fuoco che si spegne, e l’Uomo, trasformato in uno sciocco, che non sa chi è il suo Signore.
Anche se arriveranno con carta e penna e avranno l’aspetto serio e pulito dei chierici, li riconoscerete dalla rovina e dal buio che portano, da masse di uomini devoti al Nulla, diventati schiavi senza un padrone”.
(G. K. Chesterton)
Come scrivevo nel precedente articolo (vedi qui), stiamo attraversando una crisi di portata antropologica; viviamo una fase di grande decadenza generalizzata (sul piano morale, culturale, economico, sociale), camuffata da una apparente espansione della conoscenza e dall’enfasi sul progresso tecnologico e scientifico.
Sul piano degli affetti e dei rapporti sociali assistiamo ad un progressivo inaridimento delle relazioni fra le persone e fra le persone e il mondo. Una crisi esistenziale che mette in discussione il senso e il significato stesso dell’essere al mondo.
La “barbarie” dei nostri tempi è la conseguenza diretta, orientata e voluta, di un piano di dominio globale del mondo, disegno che viene da lontano, progettato da una Oligarchia di potere oscuro che, attraverso gli strumenti economico-finanziari, con l’aiuto della tecnologia avanzata, della scienza e dei mass media, istituzionalmente asserviti, tende a dominare l’intero pianeta, imponendo un appiattimento verso il basso di libertà, cultura, diritti, identità personali, identità collettive.
Dall’amore alla paura
“Le persone piene d’amore vivono in un mondo pieno d’amore. Le persone ostili vivono in un mondo ostile. Ma il mondo è sempre lo stesso” (W.W. Dyer)
In questo contesto il codice prevalente è quello della paura, alimentato perennemente dilatando la percezione soggettiva del pericolo, rispetto a presunte emergenze planetarie, spacciate per reali ed oggettive, forzando i dati scientifici e la comunicazione pubblica.
Il bisogno di sicurezza delle persone viene così sollecitato, proprio per indurle ad accettare soluzioni che richiedono sacrifici e rinunce, in nome del progresso, della sostenibilità, dell’inclusione e della “protezione” di tutti. In sostanza trasformando la vita in uno stato di costante instabilità, che è l’esatto contrario dell’aspirazione tutta naturale a transitare una esistenza in serenità, in pace con se stessi, con gli altri e con il mondo.
Il registro dell’amore, proprio della vita nella sua vocazione originaria (che non è solo biologica, ma anche relazionale e spirituale), è soppiantato da quello della paura. La felicità è scambiata per edonismo, godimento spesso effimero e fine a se stesso; uno stato di diffuso malessere attanaglia le persone (sia pure percepito coscientemente in maniera più o meno consapevole); l’odio, l’ostilità e la rabbia (che è l’accumulo distruttivo e perverso dell’aggressività come normale difesa del Sé) serpeggiano come energia “malefica” nei rapporti sociali, fra le persone e fra gli individui e le istituzioni.
Il piacere a tutti i costi, l’accaparramento opportunistico per se stessi ha offuscato la gioia di vivere, che dovrebbe essere alla base di quella sana consapevolezza di “una vita che val la pena di essere vissuta”. Le persone sono apparentemente libere, ma individualmente non contano niente, hanno un potere quasi nullo a livello sociale e politico. Cittadini divenuti sudditi di un padrone invisibile.
Richiamando Kierkegaard, la vita è diventata un problema da risolvere, piuttosto che un mistero da vivere.
Dall’eco-ansia all’eco-vergogna
“Ho l’ansia!
Perché?
Perché almeno ho qualcosa!”
(Cavez)
Alle paure e ai disagi di questa fase della nostra esistenza, recentemente si è affiancata una “nuova” tipologia di ansia, denominata eco-ansia. Ma che cos’è l’eco-ansia (a parte una forzatura linguistica, un neologismo orientato a stigmatizzare un problema piuttosto che a risolverlo) se non la sottolineatura di una fobia indotta, proprio da quel cavalcare vere o presunte emergenze, amplificandone gli aspetti soggettivi?
Tutte le paure hanno in origine una fonte esterna, oggettiva, comunque reale per il soggetto che la prova; quindi anche la “preoccupazione” per gli aspetti ambientali (confusi e assimilati un po’ troppo sbrigativamente con quelli climatici) dovrebbe essere metabolizzata e affrontata con le opportune risorse psichiche individuali, assumendosi le responsabilità personali connesse al problema.
L’ansia in realtà è sempre la stessa, ossia un diffuso senso di inadeguatezza e di timore di fronte ad un evento-problema; è un aspetto ineludibile e connaturato all’essere umano, che rimanda se mai alla capacità individuale di neutralizzarla e trasformarla in energia costruttiva per la risoluzione del problema stesso.
Se invece si enfatizza (dai media più che dagli studiosi che hanno ritenuto di intravvedere un nuovo costrutto, peraltro poco noto persino agli psicologi addetti ai lavori) l’emergere di una nuova forma di “ansia sociale”, di fatto si utilizza quello che dovrebbe essere un sintomo, per stigmatizzare una emergenza collettiva (climate change), che dal punto di vista scientifico è ancora oggetto di discussione e confronto.
Dire quindi che io soffro di eco-ansia, significa che la collettività (non io!) deve assumere l’onere di risolvere il problema che genera la mia ansia (quale? quello climatico o quello ambientale, o tutti e due insieme?!). Mi pare perlomeno deresponsabilizzante (e anche un tantino utopistico!). E intanto io starei male; che faccio: prendo un ansiolitico? vado da un terapeuta anch’esso eco-ansioso?
Io preferisco invece richiamare il ruolo che il soggetto ha sempre in ogni aspetto della vita. Assumersi la responsabilità (non la colpa che è altra cosa) significa interpellare la propria coscienza sul ruolo che ciascuno come persona ha su un determinato aspetto della propria esistenza; e qual’è di conseguenza il contributo che lui stesso può e deve dare per risolvere quel problema.
Le preoccupazioni per gli aspetti ecologico-ambientali sono assolutamente importanti e, direi, anche eticamente rilevanti. Ma una cosa è assumere consapevolezza sulla responsabilità umana nell’abuso che si è fatto (e si continua a fare) della natura, degli animali e delle cose, altra cosa è indurre sensi di colpa rispetto a conseguenze che non sono direttamente connesse a quel comportamento non etico.
Per intenderci, una cosa è sollecitare maggiore responsabilità, senso civico ed educazione nella tutela dell’ambiente e nella prevenzione dell’inquinamento, altra cosa è far credere (con dati scientifici niente affatto consolidati) che da quel comportamento derivino catastrofici cambiamenti climatici, rispetto ai quali possiamo provare solo paura e sgomento. Per essere più espliciti: se io inquino il mare con la plastica, faccio un danno ambientale certo, facendo direttamente morire i pesci; ma il mio comportamento non ha alcuna connessione certa con il cambiamento climatico.
Piuttosto che eco-ansia per un problema che non è in mio potere risolvere, preferisco allora provare eco-vergogna se non metto in atto immediatamente comportamenti virtuosi, che sono nelle mie possibilità e che portano sicure conseguenze positive per me, per gli altri e per la natura.
Profezie autoavveranti?
“Vedrò un mondo che non mi piacerà. Estate senza fiori, mucche senza latte, donne senza pudore, uomini senza valore, conquiste senza un re, alberi senza frutti, mare senza vita, iniqui pareri dei vegliardi, infami sentenze dei giudici, ogni uomo sarà un traditore, ogni ragazzo un ladro, il figlio entrerà nel letto del padre, il padre entrerà nel letto del figlio, ognuno sarà cognato di suo fratello.
Un’epoca iniqua, il figlio tradirà il padre, la figlia tradirà la madre.”
(Seconda Profezia della dea Mórrígan, “Cath Maige Tuired” – VIII sec.)
Al di là dei richiami profetici, non c’è dubbio che in questa fase della storia universale dell’umanità il Male sembra prevalere sul Bene.
Il senso di onnipotenza e il delirio megalomanico (proprio delle menti psicopatiche, prive di qualsiasi empatia relazionale e di qualsivoglia autentico interesse per il destino delle persone) che esprimono queste Oligarchie (ormai neanche più tanto segrete ed occultate), pare essersi impossessato della ragione e della volontà della massa, facendo imboccare all’umanità intera un sentiero stretto, che può portare alla fine dell’umano, ad una condizione trans-umana.
Ma la responsabilità per questa deriva antropologica è tutta a carico nostro; interpella cioè la coscienza di ciascuno di noi, singolarmente: inutile nascondersi dietro presunti valori egalitari, principi non discriminanti di inclusività, di solidarietà, o “nuove” opportunità per l’umanità.
La domanda da porsi urgentemente è: siamo proprio sicuri di aver imboccato la strada giusta?
Non è importante se siamo di fronte all’Apocalisse e se stiamo vivendo l’ultima battaglia o meno; credo piuttosto che dobbiamo responsabilmente attribuire agli uomini quello che è degli uomini: il male non viene da Dio, ma è un prodotto delle “libere” scelte umane.
Altrettanto responsabilmente siamo quindi noi che dobbiamo lottare per cercare di ricreare condizioni migliori di vita su questa terra.
Al contrario di quello che ci viene spesso impropriamente richiamato, Gesù nel Vangelo non ha detto solo di “porgere l’altra guancia” e non reagire alla violenza con altra violenza, ci ha invece indicato con l’esempio come debba essere delegittimato il potere del Tempio, quando esso si mostra moralmente corrotto e lontano dai richiami fondamentali del Bene.
Al di là del bene e del male
“Sorgeranno molti falsi profeti e inganneranno molti. Per il dilagare dell’iniquità, l’amore di molti si raffredderà. Ma chi persevererà sino alla fine, sarà salvato” (Gesù di Nazaret)
Quanta responsabilità ciascuno di noi ha nelle cose del mondo, guardando specialmente questo periodo dove il Male sembra prevalere sul Bene?
A partire dall’alto, da chi detiene il potere e ha responsabilità politiche e sociali, fino all’ultimo di noi, nessuno escluso, tutti abbiamo la nostra parte di responsabilità su come va il mondo, ma ancora di più sulle prospettive di un realistico miglioramento.
Ognuno secondo le proprie possibilità, le proprie competenze, i propri impegni personali, familiari, sociali, può essere parte di un cambiamento.
Non bisogna aspettare che qualcun altro ci salvi; non ci può essere nessun salvatore se non siamo noi per primi a fare tutto il possibile per salvarci, per vincere la nostra passività, il nostro pessimismo, recuperando la speranza e la volontà di stare dalla parte del Bene e del Giusto.
“Gli spiriti più leggeri e liberi preannunciano con le loro tendenze il tempo che farà” (F. Nietzsche).
Se individualmente con le nostre azioni concrete nel quotidiano agiamo per il Bene, a partire dalla nostra cerchia di influenza e relazioni, possiamo facilitare la creazione di un movimento orizzontale, che si propaga a raggiera facendosi progressivamente sempre più ampio, e che assume la potenzialità di modificare la realtà circostante (è quello che qui ho chiamato sovranità personale).
La tendenza prevalente è invece quella rinunciare a questo “potere”, di pensare di non contare abbastanza, attribuendo così la “colpa” e la responsabilità agli Altri, rifugiandosi difensivamente nella propria “zona di confort”, nel proprio orticello privato, nella propria ignavia.
Questo defilarsi, tutt’altro che affrancarci dalla nostra responsabilità, è di fatto una dichiarazione di impotenza e di resa ad ogni possibilità di un cambiamento che ci veda attori protagonisti della nostra esistenza e non generiche comparse di una vita decisa dagli altri.
Se non è diretta colpa nostra la situazione nella quale siamo costretti a vivere per volontà di altri, finiremmo diversamente per provare vergogna per noi stessi, per non aver dato il nostro contributo a risollevare le sorti del mondo, desiderando in fondo soltanto di “ritornare semplicemente umani”.
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Circa l'autore:
Dr. Roberto Calia Psicologo Psicoterapeuta Milano