Carattere

La forza del carattere

“Chi possiede coraggio e carattere,  è sempre inquietante per chi gli sta vicino.”
(H. Hesse)

La nostra vita è come un grande disegno che tracciamo con la nostra quotidianità, le nostre azioni, i nostri pensieri, i desideri, le gioie, i dolori, i successi, le cadute. Tutto ciò che facciamo o non facciamo, costruiamo o distruggiamo, esprime la nostra natura, ciò che siamo autenticamente.
Ci caratterizza appunto, esprime cioè il nostro carattere, la persona che siamo diventati negli anni, la cui essenza è destinata a permanere anche oltre la nostra stessa esperienza terrena.

Il carattere ci accompagna nel percorso della nostra vita, asseconda tutta la nostra esistenza, svela la persona che siamo autenticamente. Il carattere plasma la nostra faccia, le nostre abitudini, le nostre amicizie, le nostre peculiarità. Segna le nostre ambizioni, le nostre aspettative, i nostri errori e i nostri successi, il modo di inseguire (o di abbandonare) i nostri sogni.
Il carattere influisce sul nostro modo di dare e di ricevere; sui nostri amori, sui nostri rapporti, sui nostri figli.
“Torna a casa con noi la sera e può tenerci svegli a lungo nella notte” (J. Hillman).
Gli anni della nostra vita sono lo scenario necessario affinché il nostro carattere si confermi e si compia in modo definito. Il percorso della vita, fino alla vecchiaia non è solo un fatto biologico che porta all’inevitabile deterioramento del corpo. La biologia è soltanto un modo di descrivere il corpo, ma non è il corpo, che ha il suo naturale completamento con la mente e con l’anima.

Se la biologia considera l’invecchiamento un processo che porta all’inutilità, la psicologia dà un senso diverso alla vecchiaia, dandole il significato di completamento della persona. È come se l’anima avesse bisogno di più tempo per compiere il suo corso.
Tutte le immagini della nostra vita, destinate a durare in eterno, delineano così la “struttura estetica” che trova il suo completamento nella vecchiaia. Riassegnano così all’anziano il ruolo archetipico che gli compete di interprete, possente e memorabile, dell’avo “custode oculato della memoria e difensore della tradizione.
Vivere compiutamente non è quindi solo un mero processo fisiologico, ma una vera e propria forma d’arte che dobbiamo imparare a rispettare e coltivare.

Il volto

“Un uomo si propone il compito di disegnare il mondo. Trascorrendo gli anni, scopre che quel paziente labirinto di linee traccia l’immagine del suo volto” (A. Borges).

Non è secondario, in tale scenario, l’impatto che ha proprio il nostro volto, che dal carattere viene plasmato e del carattere è l’immagine più rivelatrice: quella faccia unica che rivela inequivocabilmente Me!  Guardandoci in profondità allo specchio, attraverso i tratti del nostro volto, come il percorso di un labirinto, possiamo incontrare l’immagine della nostra anima.
Hillman dice: “Invecchiando, io rivelo il mio carattere, non la mia morte. Per il bene dell’umanità, bisognerebbe proibire la chirurgia estetica e considerare il lifting un crimine contro l’umanità.”

La chirurgia estetica snatura del tutto questo discorso sull’invecchiamento come completamento del carattere (mi riferisco evidentemente alla chirurgia estrema, non alla medicina estetica o al fitness, che entro certi limiti possono essere funzionali ad esprimere al meglio lo star bene con se stessi e con gli altri).
Gli interventi chirurgici sull’immagine del corpo modificano lo “schema corporeo” (l’immagine interiorizzata che abbiamo del nostro corpo). Sono ricercati proprio da chi è in genere ben distante o in conflitto con una adeguata percezione di sé.  Il corpo, che è il riflesso esteso, fisico e spaziale di sé, è percepito come “esterno”, “strumentale” e quindi può essere modificato a proprio piacimento. Il corpo oggi è divenuto oggetto di ostentazione, di “performance”. Viene data più importanza alla rappresentazione di sé rispetto alla manifestazione, all’immagine rispetto all’essenza.
“Lasciami le mie rughe, non me ne togliere nemmeno una. Ci ho messo una vita intera a farmele” (A. Magnani).

Una forzatura che è l’esatto contrario della bellezza artistica. Il corpo non è più come “un sogno della mente”, ma piuttosto un incubo da correggere, controllare, solo per l’ambizione di poter finalmente piacersi e compiacere. Cosa che puntualmente fallisce.
Un giovanilismo esasperato coltiva l’illusione di un prolungamento interminabile dell’adolescenza. È per questa proiezione adolescenziale che la nostra cultura permea di paure l’invecchiamento, impedendoci di godere liberamente le immagini in bella mostra della vecchiaia, che traspongono la vita biologica nell’immaginazione e, quindi, nell’arte.
(vedi: J. Hillman “La forza del carattere”, Adelphi Ed.)

Il carattere e l’abitudine

“Lentamente muore chi diventa schiavo dell’abitudine, ripetendo ogni giorno gli stessi percorsi, chi non cambia la marca o colore dei vestiti, chi non rischia, chi non parla a chi non conosce.” (M. Medeiros)

Come diceva Oriana Fallaci l’abitudine è la più infame delle malattie, perché ci fa accettare qualsiasi cosa. “Per abitudine si vive accanto a persone odiose, si impara a portare le catene, a subire ingiustizie, a soffrire, ci si rassegna al dolore, alla solitudine, a tutto.L’abitudine è come un veleno che entra in noi inconsapevolmente, lentamente e silenziosamente. E quando si è radicata in noi ogni nostro gesto può essere condizionato.
Quando l’abitudine diventa ripetitività noiosa, costrizione, necessità subita, si pone il problema di dover cambiare qualcosa. Anche se l’insoddisfazione avanza, accampiamo mille resistenze a modificare i nostri modi abituali, i gesti, le azioni, le cose concrete ormai quotidiane, anche se ci appaiono grigie, passive, mortifere.

L’abitudine meno conosciuta è proprio il nostro carattere. Il carattere si forma infatti durante il nostro sviluppo per adattamento alle pressioni esterne (relazioni significative, educazione, realtà). Molti tratti del carattere sono forme cronicizzate di difesa, congrue in origine e poi strutturatesi, divenendo quindi automatismi abitudinari. Anche le parti negative del nostro carattere sono come “cattive abitudini” di cui non riusciamo più a liberarci (“è il mio carattere, non ci posso fare niente!.”)
Contrariamente a ciò che comunemente si pensa, il carattere (che è cosa diversa del temperamento, fortemente ancorato a ciò che ereditiamo geneticamente) può essere modificato, specie quando si manifesta in comportamenti per noi negativi. Se siamo consapevoli che quel tratto non ci è più funzionale (è diventato cioè ego distonico), può essere oggetto di un lento lavoro di cambiamento, per sostituirlo con modalità più ego sintoniche.

Occorrerà però recuperare le nostre aspettative perdute e ripristinare lo sguardo oltre la quotidianità pressante. Bisogna vincere l’inerzia, che si pone ormai come uno stop allo slancio vitale e affrontare la paura del nuovo. È uno sforzo che può essere fatto solo con pazienza, prudenza e “allenamento”, come una sorta di riabilitazione, mentale e comportamentale.
L’importante è coltivare giorno per giorno l’intenzione di voler abbandonare qualcosa che ormai non ci è più funzionale, non ci aiuta a vivere bene. Solo così si rafforza la convinzione che sia possibile, che ci si possa affrancare da ciò che ci soffoca, accompagnando alla porta quell’abitudine limitante, fuori dalla nostra vita.
Con il suo stile ironico e riflessivo, Gaber diceva che non ci si può liberare delle abitudini in un colpo solo, bisogna fargli scendere pazientemente le scale, un gradino alla volta.

Avere carattere vuol dire allora avere il coraggio di assumersi le proprie responsabilità in ogni circostanza, anche quando può risultare impopolare, affrancarsi dal bisogno compulsivo di essere approvati e, quando necessario, uscire dal coro e diventare solista, andando contro corrente.
Diventare “politicamente scorretto” per conservare le proprie idee e convinzioni. Pensare con la propria testa e non per slogan o per “sentito dire”, sposando acriticamente le idee degli altri.
Il rischio estremo è di diventare burbero, che può essere evitato con una buona dose di empatia. La capacità empatica consente di prendere la giusta distanza dagli altri, facendoci risparmiare energie e delusioni. Perché infatti dire a tutti i costi la mia opinione, quando l’altro non ha alcuna disponibilità ad ascoltarmi? Non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire!
Il carattere si esprime anche nel silenzio. Chi ha carattere fa rumore anche in silenzio.

Carattere e destino

“Destino e carattere sono due nomi del medesimo concetto.” (H. Hesse)

In un mondo dove prevale il compiacimento, l’accondiscendenza, il quieto vivere, avere carattere è spesso difficile. Quando di una persona si dice che “ha carattere”, si connota in genere qualcosa che viene visto negativamente, come caparbietà, ostinazione, fermezza.
“Un uomo di carattere, non ha un buon carattere!” (J. Renard).
Secondo questo punto di vista, essere autentici e franchi in ogni circostanza, spesso anche contro ogni evidenza contraria; prendere decisioni e fare scelte, quando è necessario, anche se non sono condivise o vanno controcorrente, significherebbe avere un brutto carattere.
Connoterebbe un “caratteraccio” chi ha pochi amici selezionati e non teme di avere anche dei nemici; e anche chi sa reagire con veemenza ad ogni sopruso ed ingiustizia, mettendo al primo posto la dignità personale, senza derogare mai, anche a costo di rimetterci privilegi o interessi.
Se questo è avere un brutto carattere agli occhi degli altri, bisognerebbe aspirare proprio ad avercelo un brutto carattere. Ed essere anche fieri di averlo.

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Circa l'autore:

Dr. Roberto Calia Psicologo Psicoterapeuta Milano
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