Persone non malattie
“Se a me fanno vedere il mio DNA, io non mi riconosco, non mi vedo, non mi identifico.” (U. Galimberti)
La medicina si è assunta la sfida di prolungare indefinitamente la vita umana. Perseguendo una illusoria promessa di immortalità, in nome della prevenzione delle malattie ci impone un percorso continuo di esami, visite, controlli, oltreché di comportamenti morigerati, dominati costantemente dal timore di ammalarsi.
“Per non farci morire di malattia, la medicina rischia di farci morire di paura” (R. Volpi).
I costi di tutto ciò sono naturalmente a carico nostro e della collettività. Espropriato della responsabilità sulla propria vita, paziente passivo invece che cittadino attivo, consapevole ed esigente difensore della propria integrità e di quella della propria comunità, ciascuno di noi contribuisce ad alimentare un consumismo sanitario, nel culto della sopravvivenza biologica, che poco ha a che fare con la vera salute individuale e con il benessere sociale.
Curare e prendersi cura
“Il punto è che per diventare medici, dobbiamo curare il paziente oltre che la malattia. Dobbiamo tuffarci nelle persone, navigare nel mare dell’umanità!” (P. Adams)
C’è una bella differenza fra CURARE (in inglese to cure) e PRENDERSI CURA (to care). “Non ti curar di lor, ma guarda e passa”, diceva Dante nel III canto dell’Inferno, invitando con questo a non “preoccuparsi” e a guardare oltre.
Il termine cura veniva evocato nella sua accezione originaria che indicava uno stato d’animo, una disposizione soggettiva, piuttosto che una pratica, una azione rivolta verso qualcuno che ne avrebbe bisogno, come oggi comunemente viene inteso. Curare nel senso latino indica l’ “essere in pensiero” per qualcuno o qualcosa, mentre nel senso moderno implica semplicemente il “trattamento”, l’atto medico verso un paziente ammalato, che nella accezione più comune si riferisce alla somministrazione di farmaci.
Della cura originaria non è rimasta traccia: è scomparsa ogni connotazione soggettiva, per il sopravvento di una mera funzione oggettiva della cura, intesa come trattamento di un paziente, che assume il ruolo di passivo destinatario di interventi tecnici; a questo è ormai relegato il significato odierno di cura.
Anche nel corrispettivo termine greco, la therapéia originariamente corrispondeva al concetto di “servizio”, non dunque ad un “trattamento”, un intervento materiale, ma un atteggiamento, un modo di essere nei confronti di un’altra persona. Interessante ancora riflettere sulle modalità concrete con le quali si esprimeva la therapéia, che implicava il “mettersi all’ascolto” dell’altro, ovvero per usare il corrispettivo latino, l’ob-audire l’altro, e cioè essere a sua disposizione. Secondo questa accezione, il theràpon si prende cura dell’altro, non necessariamente somministrandogli tecniche o medicine, ma semplicemente gli “obbedisce”, ponendo attenzione al suo ascolto.
Nella medicina di oggi il concetto originario di cura-therapéia è ormai del tutto mutato, centrato prevalentemente, ove non del tutto, sul primato della “tecnica” (farmacologia, chirurgia, trattamenti fisici, ecc.), con la perdita della dimensione soggettiva della relazione, di una visione unitaria della persona. Un vero e proprio fallimento della cura. [*]
Oggi predomina in medicina un approccio oggettivante, che privilegia l’attenzione ai sintomi, agli organi, alle parti ammalate. Si cura la malattia, non ci si prende cura della Persona intera, nella sua globalità psico-fisica-sociale (e spirituale). Trionfa il mono-specialista, oppure l’iper-specializzazione: medici che si occupano della propria disciplina o del proprio ambito clinico specifico, perdendo di vista il tutto, ossia la Persona con la sua soggettività, che dovrebbe venire sempre prima della sua malattia (che è l’oggetto della cura).
Così il paziente, con i suoi bisogni e la sua sofferenza, che non può mai essere distinta dalla sua malattia, è costretto a passare da più specialisti, trovando raramente qualcuno che si prende la responsabilità di mettere insieme tutta la situazione clinica e la sofferenza della persona.
Per prendersi cura occorre un’attitudine relazionale prima ancora che tecnica, da parte di un operatore empatico, che deve essere capace di comprendere (cum, insieme), la sofferenza del malato.
Il guaritore ferito
“Il medico deve imparare a conoscere la propria anima e a prenderla sul serio: se egli non sa farlo, non potrà apprenderlo neppure il paziente” (C.G. Jung).
È necessario dunque un ritorno alla vocazione umanistica originaria (tipica della medicina ippocratica), recuperando una concezione della medicina che pone autenticamente al centro della sua pre-occupazione la Persona, con la sua sofferenza (il pathos) che non è più un mero fatto “biologico”, un accidente del corpo o della mente, ma investe anche e soprattutto la dimensione dello spirito (phisis).
La figura mitologica che meglio descrive questo approccio terapeutico è quella del “guaritore ferito”, un guerriero che è divenuto persona padroneggiando per primo la propria sofferenza, mettendo a disposizione del paziente tutta la sua competenza su tale esperienza esistenziale.
Il richiamo alla figura del centauro Chirone rappresenta simbolicamente il punto di incontro fra l’operatore sanitario e il paziente, il fondamento empatico-relazionale di ogni cura. Nella mitologia greca Chirone si distingueva per la sua dedizione agli altri, caratterizzata da grande compassione, saggezza e conoscenza della scienza medica. Considerato il capostipite di quella scienza in quanto maestro di Asclepio, che la mitologia greca considerava il dio della medicina, Chirone è conosciuto come il centauro ferito, simbolo di chi sa prestare aiuto, conoscendo egli stesso il dolore e il bisogno di cura. Esalta l’importanza di riconoscere la reciproca vulnerabilità, come fonte di consapevolezza nell’esercizio dell’arte della therapéia. Il mito di Chirone è strettamente legato alle professioni di medico e psicologo.
Il riferimento alla figura mitologica del guaritore ferito costituisce il solco per un buon cammino nella terapia e nella cura, un percorso condiviso fra il medico e il paziente, che possono così riconoscersi come persone accomunate dalla umana esperienza del dolore. L’incontro fra il terapeuta e il paziente è un incontro fra due soggetti, uniti dal comune patire delle vicende umane. Solo con questa predisposizione, con questa “intenzione relazionale”, il medico, in quanto guaritore ferito, può riconoscere nel paziente parte del suo dolore, lo com-prende e se ne fa carico.
Una concezione compassionevole, dunque, della clinica nella quale il “patire insieme” (cum, pathos) definisce un’attenzione consapevole e una motivazione sensibile verso la sofferenza di noi stessi e degli altri ed un profondo impegno nel compito (il servizio della therapéia) di alleviarla.
Il medico come guaritore ferito conosce la sofferenza, sa che è parte ineludibile della vita, e che quindi può ri-conoscere nel suo paziente, come comune esperienza esistenziale.
Nella condivisione del dolore e della sofferenza può svilupparsi quell’alleanza terapeutica, essenziale per il buon esito di ogni cura.
Malattia
“Guarire significa agire, non è un evento passivo” (C. Myss).
Ci sono due modi opposti per affrontare le malattie. Si può considerarle come qualcosa di esterno, di estraneo a noi, un nemico da combattere. Quindi le cause (o le “colpe”) sono da ricercare altrove, in modo oggettivo e razionale: è il mestiere (e il mercato) della medicina.
Oppure si può considerarle come “segnali”, equivalenti simbolici di qualcosa che ci appartiene, interno a noi. La malattia assume quindi un significato soggettivo, includendovi tutti i suoi aspetti affettivi, emotivi e spirituali. Non basta allora vedere i corpi come li vede la fisica, la chimica, la biochimica, la genetica.
Non esiste una realtà oggettiva separata dalla soggettività: l’esperienza partecipante è parte integrante della realtà stessa. Il vissuto del soggetto malato è imprescindibile per l’efficacia della cura. Il corpo e la mente sono una cosa sola, come due binari su cui scorre la nostra vita, non solo quella biologica e materiale, ma anche quella psicologica e spirituale.
Il dolore del corpo è il dolore della mente e viceversa. Il medico deve essere capace di leggere la sofferenza (pathos) in tutte le sue espressioni, sia che si manifesti sul corpo (un dolore fisico, un sintomo, una patologia organica), sulla mente (ansia, depressione, disagio esistenziale) o su entrambi i livelli (sindromi psicosomatiche o somatopsichiche).
La malattia è l’espressione del nostro adattamento alla vita; la qualità del nostro vivere, delle nostre relazioni, dei nostri affetti, dei pensieri e delle emozioni incidono pesantemente sulla nostra salute generale. La vita emozionale (che è contemporaneamente fisica e psichica) è altrettanto importante nel determinare ciò che accade al nostro corpo, di quanto non possano essere eventi ambientali, batteri, virus, con i quali veniamo a contatto.
La storia della scienza ci dice che la medicina è nata studiando i cadaveri e sono l’anatomia e la fisiologia, desunti in astratto, il fondamento dell’arte medica. Una medicina della persona si occupa invece di corpi viventi, che sono unici e soprattutto sono anche mente e spirito. In questo senso, la malattia sta ad indicarci sostanzialmente che stiamo facendo qualcosa di disfunzionale, che la nostra vita non è perfettamente allineata con noi stessi, con ciò che siamo realmente come Persona intera, corpo, mente e anima.
Il disagio, il singolo sintomo o la malattia possono essere colti allora come occasione ulteriore che ci è data per ritrovare il nostro equilibrio, per recuperare finalmente ciò che ci fa star bene davvero.
Guarigione
“Quando vi assale la malattia, ne siete voi stessi la causa in quanto interiormente avete coltivato del disordine: avete nutrito certi pensieri e certi sentimenti, avete manifestato certi atteggiamenti e tutto ciò si è poi ripercosso sulla vostra salute. La migliore arma contro questa malattia è l’armonia: giorno e notte cercate di sincronizzarvi, di mettervi in accordo, in consonanza con la vita” (O.M. Aïvanhov).
L’inseparabilità del corpo dalla mente e più recentemente il riconoscimento dell’importanza della dimensione trans-personale (che va cioè oltre il singolo, la sua biologia, la materia fino a considerare l’anima, lo spirito, l’universo) sembrano essere divenuti costrutti comuni. Ma sono invece apparentemente accettati e solo sul piano teorico.
Nella pratica clinica si vede ancora una tendenza crescente verso una medicina iperspecialistica, dove il corpo umano viene concepito in “pezzi” (organi, apparati, funzioni, ecc.) che sono poi oggetto di studio di medici sempre più esperti di singoli aspetti, patologie specifiche, metodiche particolari. Il malato (che è l’essere umano nella sua interezza, non la sua malattia) non sembra interessare nessuno.
Per fortuna cresce contemporaneamente una spinta ad una visione unitaria, olistica, più consona alla complessità della vita odierna e alle problematiche che comporta sulla salute delle persone.
Questa concezione implica il passaggio dalla medicina bio-fisica alla medicina bio-psico-sociale. Ma anche oltre. Si pone come un nuovo paradigma antropologico, prima ancora che scientifico.
Si va affermando una nuova Scienza (anche se ha origini e tradizioni lontane), con una rinnovata visione scientifico-umanistica, che passa dalla PNEI (psico neuro endocrino immunologia) alle neuroscienze, alla fisica quantistica e ad una rinnovata psicoanalisi relazionale.
Una visione unitaria in cui l’infinitamente piccolo (la più piccola particella di materia) si rispecchia con l’infinitamente grande (l’Universo).
Olos
“Non dovresti curare gli occhi senza curare la testa o la testa senza curare il corpo. Così anche non dovresti curare il corpo senza curare l’anima. Questo è il motivo per cui la cura di molte malattie è sconosciuta ai medici, perché sono ignoranti nei confronti del Tutto che anch’esso dovrebbe essere studiato, dal momento che una parte specifica del corpo non potrà star bene a meno che non stia bene il Tutto” (Platone).
Questo è il fondamento filosofico di una vera clinica olistica, ovvero di una medicina (e di una psicologia) semplicemente umana. Non si può curare il corpo, senza occuparsi dell’anima che vi dimora. Intanto che facciamo un check-up medico, uno sguardo alla nostra coscienza è essenziale!
“Troppo ancorati al mondo fisico, non riusciamo ad attingere all’immenso potenziale di quello spirituale, che pure continua a bussare alla nostra porta” (D. Chopra).
Paradossalmente, tale approccio trova resistenze anche tra i malati, che si sentono ingiustamente colpevolizzati da una interpretazione della patologia, che li coinvolge in modo diretto, nei propri aspetti soggettivi, relazionali e non solo materiali. La salute (e la malattia) non è una questione di colpa, ma una questione di responsabilità.
In realtà la medicina olistica vuole ridare speranza e prospettiva alla cura, puntando sulla centralità della Persona, sulla sua libertà e sulla autonomia delle sue scelte di vita, a livello personale, sociale, ambientale. Un passaggio evolutivo della scienza cosiddetta obiettiva fino ad inglobare la dimensione soggettiva e spirituale dell’uomo.
Parlare di “responsabilità” in materia di benessere o malessere, significa di fatto passare da una posizione passiva di paziente-malato, ad una attiva di persona protagonista della propria esistenza. Nel bene e nel male. Un’opportunità per riprendersi uno spazio di potere sulla propria vita, ora completamente in mano di una scienza e una medicina ipertecnologica,sempre più “virtuale” e meno relazionale, di fatto sempre più dis-umana.
La sapienza occidentale incontra finalmente la saggezza del pensiero orientale per fornire all’umanità i riferimenti per una consapevolezza sempre più rispettosa della Natura profonda dell’Uomo.
Guarire
“Il tuo corpo non può guarire senza gioco. La mente non può guarire senza risate. La tua anima non può guarire senza gioia” (C. Fenwick).
La malattia è dunque sempre l’espressione di un dis-agio, uno squilibrio nel rapporto fra le diverse dimensioni della persona (il corpo, la mente, l’anima e lo spirito). Non può essere “guarita” parzialmente, curando singoli “pezzi” della Persona intera.
La malattia insorge quando la comunicazione all’interno della nostra complessa individualità si fa difettosa, quando le singole parti del nostro essere Persona non funzionano armonicamente ed in sintonia fra loro. La nostra esperienza di vita, che si sviluppa attraverso il corpo e la mente, e che dovrebbe favorire lo sviluppo della nostra coscienza, subisce un “blocco energetico”, un ristagno che spinge verso il basso, verso la materia: la biologia del corpo si distanzia dalla psicologia della mente in un cortocircuito mortifero.
Quando si crea un distacco, una frattura (crisis) fra il corpo e l’anima, quando la mente non fa più da raccordo fra loro, ci ammaliamo. E se la mente non ha più consapevolezza del disagio che viviamo, ecco che si ammala il corpo. La materia si sostituisce allo spirito, la biologia si trova da sola ad interpretare il mal-essere e lo fa a modo proprio: gli apparati, gli organi, le cellule del nostro corpo si sostituiscono nel compito di garantire la continuità della vita, anche se questa può condurre paradossalmente alla morte fisica. La malattia diventa un equivoco, un fraintendimento nel destino dell’anima.
Da questo punto di vista la malattia può diventare una opportunità personale sulla via della guarigione. Per guarire, che non coincide affatto con il controllo dei sintomi, con la sola attenuazione della sofferenza, bisognerà imparare a dialogare con la malattia, a non considerarla come un nemico da abbattere, ma un amico da recuperare, anche se per farlo bisogna essere duri, spietati e allo stesso tempo compassionevoli, come solo chi ama, riesce a fare sul serio.
“Guarire è toccare con amore, ciò che prima abbiamo toccato con paura” (S. Levine).
Per fare questo occorre essere pronti a modificare qualcosa della nostra vita che ha portato a quello squilibrio: uno stile di vita sbagliato, relazioni asfissianti, un comportamento inadeguato, un’abitudine disfunzionale, un atteggiamento mentale negativo.
Molti pensano di poter essere curati senza essere pronti ad affrontare i cambiamenti e le sofferenze necessari per attivare un vero processo di guarigione. È necessario ritrovare l’intenzione profonda a stare bene, nelle relazioni sia con se stessi, sia con gli altri che con il mondo.
La cura delle malattie può venire da “fuori” (terapie mediche, psicologiche, naturali, ecc.), ma la guarigione avviene soprattutto da “dentro”, con quell’intenzione interiore di ri-allineamento che promuove una vera e propria auto-guarigione.
La guarigione, non la semplice soppressione dei sintomi, può avvenire solo a livello di coscienza.
Non un miracolo (a quelli ci pensa Dio!), ma la meraviglia delle potenzialità che ci sono state date come dono.
Analogamente, passando dall’individuale al collettivo, molti si dichiarano progressisti, senza in realtà essere capaci di promuovere alcun vero cambiamento sociale. La “guarigione del Mondo” può avvenire solo con un profondo e radicale cambiamento nel modello di vita che abbiamo adottato, e che ci ha portati nel diffuso malessere odierno, perché assai distante dalla vera natura dell’Uomo su questa terra.
La vita come un film
“Siate i protagonisti della vostra esistenza e non comparse della vita di qualcun altro.”
Per attivare un vero processo di guarigione, per andare oltre la malattia e la cura, bisogna dunque essere pronti ad affrontare i cambiamenti necessari per ripristinare l’equilibrio perduto. Cogliere così l’opportunità di riprogrammare la nostra vita, pena la nostra salute o la nostra stessa vita biologica. Un lavoro compassionevole sulla nostra psiche, al pari di un ritrovato interesse per il nostro corpo.
Come in un film [**], man mano che si svolge, la vita imprime sulla pellicola della memoria la sua narrazione, la storia, i ricordi, i vissuti, gli affetti. Chi vuole “guarire la vita” deve essere disposto a rivedere il proprio film e ricercare con onestà e chiarezza tutti i “vuoti d’amore”, presenti dentro di noi come “buchi nello stomaco”, e cominciare a riempirli con le proprie mani.
Deve prendere per mano il proprio bambino interiore, che dimora ancora ferito dentro di lui e dargli tutto l’amore e la protezione che non ha ricevuto.
L’adulto deve fare pace con se stesso e gli altri e smettere di colpevolizzare o fare la vittima, smettere di giudicare, di ferire, di odiare se stesso e gli altri. Deve smettere di ingabbiare la propria vita in un personaggio che fa o dice esattamente ciò che ci si aspetta da lui. Deve togliere gli scheletri dagli armadi e dargli finalmente sepoltura e lasciarli andare con Dio.
“Guarire significa imparare ad amarsi, ad onorarsi e a rispettarsi” (M. Calasso).
Significa andare oltre l’individuo adattato e coartato dalle paure inculcategli fin da bambino, assumendosi la responsabilità di essere finalmente se stesso, costi quel che costi.
Per essere veramente se stessi, bisogna liberarsi dalle maschere sociali e affrontare il senso di vuoto da cui cerchiamo di sfuggire, rinunciando alla vanità effimera di piacere agli altri e alla gratificazione apparente di essere compiacenti agli altri.
Questo significa passare dalla rabbia narcisistica, determinata dalle ferite infantili, al narcisismo maturo, ossia a quel “sano egoismo” che inizia e finisce esattamente al confine con l’Altro.
Perché l’altro è una persona che ha esattamente gli stessi bisogni e gli stessi diritti nostri. Solo un ritrovato amore di sé può diventare capace di esprimersi nell’amore dell’Altro, passando dal rapporto fra individui frammentati in cerca di riparazione ad una relazione fra persone intere fatta di reciprocità, parità e simmetria.
Il miglior terapeuta
“Ogni giorno, quello che scegli, quello che pensi e quello che fai, è ciò che diventi” (Eraclito).
Ciascuno di noi ha la possibilità di essere il miglior terapeuta di se stesso. Bisogna però avere la pazienza e il coraggio di guardare dentro di sé con franchezza, con la giusta comprensione e con la fermezza necessaria per affrontare le sofferenze, i sentimenti, le emozioni ma anche le ombre e i chiaroscuri che stanno nella mente. Bisogna aver voglia di fare “ordine e pulizia” di vecchi ricordi, pregiudizi, contraddizioni, che rendono caotici i pensieri, mettendo al giusto posto le cose; modificando il punto di osservazione di convinzioni, credenze radicate, intenzioni abbandonate. Occorre riaprire un dialogo empatico, sereno ed amichevole con se stesso, mostrando una vera comprensione per il proprio bambino interiore.
Molte sono le domande che dovremmo porci (“vivo la mia vita pienamente oppure lascio che le cose mi accadano?”, “faccio fluire le mie energie oppure sono bloccato e più preoccupato di rispondere alle pressioni che mi vengono da fuori?…); e molte cose dovremmo riflettere sulle risposte che ricaveremo (“che faccio ora delle cose di cui ho preso consapevolezza?”, “che senso dò alla mia malattia?”…).
Non ci si può sbarazzare del passato, ma lo si può rivedere criticamente, chiudendo per sempre ciò che deve essere chiuso, liberando energie mentali che ci bloccano, che zavorrano la nostra vita. È il presente il vero problema, non il passato o il futuro. Ed è il solo “posto” dove abbiamo il potere di agire, per guardare se stessi e le cose con serenità e fiducia. Mi riferisco in generale alla possibilità di un dialogo interiore costruttivo con se stessi, che tutti dovremmo prima o poi avere per star bene, sia fisicamente che psicologicamente.
Ognuno può dunque essere lo psicologo e il medico di se stesso [***], ma non degli altri (come invece si usa fare, spargendo consigli a vanvera!). Possiamo diventare compiutamente Persona solo se sappiamo oltrepassare le colonne d’Ercole delle nostre mille maschere posticce (identificazioni parziali), abbandonando consapevolmente la nostra “rappresentazione sociale”. Correndo il rischio iniziale di perdere l’equilibrio precario a cui siamo abbarbicati, pagato con la fatica di sentirsi sempre esausti e in procinto perenne di una “crisi di nervi”, dobbiamo imparare a riconoscere e rispettare i nostri limiti e le nostre virtù, per riconciliarsi con la nostra più profonda natura e assumere con fierezza la nostra vera identità, unica ed irripetibile: Essere finalmente e non solo Apparire!
Conosco già le obiezioni. È evidente che tutto ciò non sia facile, ma non vuol dire che non sia possibile.
Dire “ma è difficile!”, significa di fatto frapporre resistenza, prendere tempo e aspettare momenti migliori, in un futuro che non arriverà mai. Non è necessario riuscirci in toto, non è richiesta nessuna perfezione. Questa prospettiva di sviluppo, come persone adulte e consapevoli, deve porsi come meta ideale, come modello dinamico di se stessi, non come un traguardo che si raggiunge una volta per tutte. Devi però cominciare. Subito, senza procrastinare. Ovunque tu sia e in qualunque condizione ora ti trovi.
Se non parti, non potrai mai arrivare da nessuna parte.
“Da una mistica presenza interiore
mi è stato detto di vivere e amare,
di gioire e soffrire.
Mi è stato detto di essere consapevole
dell’unico potere
che è in tutto e dappertutto.
Mi è stato detto di lasciare
che questo potere operasse
attraverso di me e in me.
Ho creduto a quella voce,
mi sono affidato,
mi sono lasciato andare,
e ho ricevuto la “mia” grazia.
Sono guarito!”
_________
[*] Un parziale recupero della dimensione soggettiva originaria si ha oggi con la distinzione che si va facendo largo in Sanità fra curare (che si riserverebbe all’approccio necessariamente oggettivo, scientifico, tipicamente ospedaliero, quando sono necessarie decisioni rapide ed efficaci per affrontare gli stati acuti di malattia, quelli che implicano un ricorso al ricovero o alla medicina specialistica) e prendersi cura (sempre più utilizzato per un approccio multidimensionale, globale della persona e della sua famiglia, considerando tutti gli aspetti sanitari, psicologici e sociali che gli stati di fragilità e cronicità comportano e che sempre più trovano nella medicina territoriale la risposta più appropriata).
[**] L’uso della metafora della pellicola sovraimpressa, riferita all’esperienza dell’analisi, si deve a Ferdinando Camon, che l’ha descritta nel suo libro “La malattia chiamata uomo” (1989).
Entrare in analisi vuol dire portare la pellicola del proprio film e rivedere la propria storia. Così mentre lo proietti, l’esperienza analitica s’imprime sulla stessa pellicola, creando una sovrapposizione di memorie, emozioni, immagini, relazioni. Il lavoro analitico si snoda sulla comune comprensione di questa visione sovraesposta, permettendo di dipanare le ombre, i chiaroscuri, le dissonanze.
Questo lavoro di paziente disvelamento permette di guardare la propria vita, imparando a vederla in profondità e riuscendo finalmente a “comprenderla”. Senza questa lucida ridefinizione, che avviene contemporaneamente sul piano emotivo e cognitivo, l’analisi non ha luogo. Questo caratterizza la differenza sostanziale fra il lavoro psicoanalitico e le altre terapie supportive, finalizzate al rafforzamento di aspetti parziali della personalità del paziente.
[***] Attenzione però! Se stai male, se non sei ancora in grado di avere questo atteggiamento verso te stesso, se ti sembra che il disagio offuschi la tua vita, attenua desideri, speranze e motivazioni, beh allora non esitare a cercare aiuto!
Non c’è sofferenza che non possa essere affrontata con il giusto sostegno. Oggi puoi trovare uno psicoterapeuta più facilmente che in passato. Informati, prendi contatto e, quando hai trovato accettazione, empatia e fiducia in un terapeuta qualificato, affidati e fatti accompagnare fino a … all’uscita dai tuoi problemi! Quando cioè sarai in grado di riprendere in mano la tua vita, senza la zavorra di mille ostacoli mentali. La vita, bella e brutta, che tutti affrontiamo tutti i giorni, semplicemente “vivendola”!
(rc)
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Circa l'autore:
Dr. Roberto Calia Psicologo Psicoterapeuta Milano