Passione e morte di Gesù
“… io sono lieto nelle sofferenze che sopporto per voi e dò compimento a ciò che, dei patimenti di Cristo, manca nella mia carne…” (Col 1,24)
L’accettazione del dolore, della sofferenza, della malattia e della morte manca del tutto nella cultura laica, ossessionata dalla frenesia del piacere e dall’obbligo della felicità. Il significato ultimo del dolore vacilla spesso anche in molti cristiani, così misericordiosi quando si tratta del dolore degli altri, ma pronti ad incolpare Dio quando qualche evento drammatico colpisce la loro vita.
Di fronte al dolore la domanda ricorrente è: “Perché proprio a me?…”
Come se la sofferenza fosse ancora concepibile se riguarda gli altri, pur suscitando stupore e compatimento; diviene semplicemente “cronaca” comune della vita quotidiana.
Ma quando tocca a noi, diventa assurda, inconcepibile, inaccettabile, “destino avverso”! Quando il dolore ci tocca, sembriamo tutti stranamente concordi: “Se esiste Dio, se Gesù si è fatto uomo, è morto ed è risuscitato per la nostra salvezza, perché esiste il dolore, perché Dio permette tante disgrazie e nefandezze di cui è costellata la nostra esistenza?…”
Rifiutiamo così di comprendere che, nella sofferenza inevitabile della nostra esperienza terrena, determinata il più delle volte da uno scriteriato uso del “libero arbitrio”, noi abbiamo comunque la possibilità di portare a compimento la nostra missione temporale per noi e per gli altri, evocando in ciò metaforicamente l’opera salvifica del Figlio dell’Uomo,
Altro che masochistico compiacimento della sofferenza e dell’elevazione del sacrificio a feticcio narcisistico! Una cosa è “amare” il dolore come strumento di espiazione della colpa, altra cosa è l’accettazione consapevole della sofferenza come passaggio ineludibile della vita.
Una “porta stretta” per confermare l’adesione alla vita e per ritrovare la via della gioia, qui non altrove, su questa terra e non solo nell’eternità.
Quando la sofferenza bussa alla nostra porta abbiamo dunque l’occasione di condividere il senso di una esperienza universale.
La “chiave simbolica” di questo comune patire è rappresentato dalla croce di Cristo.
Il pathos che singolarmente siamo costretti ad affrontare trova nell’opera redentrice di Gesù un nuovo contenuto e un nuovo significato.
Nella croce di Cristo ogni sofferenza umana ha acquistato una possibilità di senso.
Con la passione di Gesù non solo si compie la redenzione mediante la sofferenza, ma la stessa sofferenza umana viene redenta.
Questo però non vuol dire che per il cristiano la sofferenza sia l’elemento centrale.
In ogni parte dei Vangeli, le dimensioni dell’amore, della gioia e della condivisione sono presenti in abbondanza. Solo chi è in “mala fede” non le vede, o finge di non vederle.
Non è dunque la sofferenza il fine, ma l’Amore.
In questo Amore il significato salvifico della sofferenza raggiunge il suo apice e si realizza fino in fondo. Questo è il senso più profondo del sacrificio umano del Figlio di Dio.
Nel programma messianico, la sofferenza presente nel mondo (il più delle volte frutto della cupidigia e della bramosia dell’uomo stesso) rappresenta l’opportunità per confermare quell’Amore che è centrale nel messaggio etico di Gesù.
È il primo e fondamentale insegnamento di Gesù, che attende ancora di essere realizzato su questa terra: “Ama il tuo prossimo come te stesso”.
Ma se è vero che “io mi salvo solo se attraverso me si salvano gli altri”, è anche vero il reciproco: “lavora sulla tua stessa salvezza, non dipendere dagli altri”.
Da tale presa di coscienza profonda può derivare il riconoscimento effettivo che l’amore per l’altro non è disgiungibile dall’amore di sé, non è in alternativa ma complementare: siamo tutti “prossimo” agli occhi degli altri, e anche noi stessi siamo prossimo!
L’amore per il prossimo, che può nascere solo da un sano amore per se stessi, è dunque l’azione concreta per trasformare tutta la civiltà umana nella civiltà dell’Amore, come anticipazione del regno di Dio. In questo Amore il significato salvifico della croce si realizza fino in fondo e raggiunge la sua dimensione definitiva.
Ancora oggi il messaggio di Gesù, non solo per i cristiani ma per l’umanità intera, invoca senza sosta l’instaurazione di questo regno dell’Amore, non nel regno di Dio, ma qui su questa terra.
Osiamo pensare che, nonostante ogni segno inverso dei giorni nostri, questo programma sia ancora profondamente inscritto nei nostri cuori e che attenda di essere testimoniato nelle nostre opere, come dono disinteressato di ciascuno di noi in favore degli altri uomini e del mondo.
Il ripudio di Gesù, il rifiuto della Croce (intesa anche solo simbolicamente come monito dei patimenti mai evitabili di ogni comune esistenza terrena) spalanca al vuoto di senso la sofferenza umana.
Solo con la forza spirituale proveniente da una “presenza” divina (a prescindere da qualunque significato vogliamo dare al mistero dell’esistenza), noi siamo in grado di sorreggere e finalizzare il nostro scopo di vita.
Roberto Calia
Post scriptum:
Nel supplizio della croce Gesù ha pronunciato sette frasi che sono un capolavoro di fede, speranza e carità.
Gesù, lentamente, con passi che sono anche i nostri, ha attraversato tutto il buio della notte, per abbandonarsi infine, fiducioso, nelle braccia del Padre.
“Elì, Elì, lemá sabactàni? (Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?)” (Mt 27,46).
È il grido di ogni uomo colpito dalla sventura. È il gemito dei morenti, il grido del dolore, l’invocazione nella sofferenza. Anche Gesù, come ogni uomo, vacilla nella prova.
E Dio tace, tace perché la sua risposta è lì, sulla croce: è Lui, Gesù stesso, la risposta di Dio.
“Ricordati di me…” (Lc 23,42). L’invocazione fraterna del malfattore, fatto compagno di dolore, penetra nel cuore di Gesù, che vi sente l’eco del suo stesso dolore. E Gesù ascolta quella supplica e dice: “Oggi con me sarai nel paradiso”.
Quando ascoltiamo il dolore dell’altro, possiamo uscire da noi stessi e, nella condivisione, attenuare il nostro.
“Donna, ecco tuo figlio!…” (Gv 19,26).
La presenza di sua Madre, Maria sotto la croce, spezza la paura, riempie di tenerezza e di speranza. Gesù non si sente più solo.
“Ho sete” (Gv 19,28).
Come il bambino chiede da bere alla mamma; come il malato riarso dalla febbre. Quella di Gesù è la sete di tutti gli assetati di vita, di libertà, di giustizia.
“È compiuto!” (Gv 19,30).
Tutto: ogni parola, ogni gesto, ogni profezia, ogni attimo della vita di Gesù.
Nulla è andato sprecato. Nulla gettato via. Tutto è diventato amore. E allora, anche il morire ha trovato un senso!
“Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno”. (Lc 23,34).
Ora, eroicamente, Gesù esce dalla paura della morte. Il perdono rinnova, risana, trasforma e consola.
“Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito”. (Lc 23,46).
Non più la disperazione del nulla, ma fiducia piena nel Padre, perché in Dio, ogni frazione si compone, finalmente, in unità.
RC
(riel. pers. da G. Bregantini)
APR
Circa l'autore:
Dr. Roberto Calia Psicologo Psicoterapeuta Milano