Cambiamento

Permanenza di sé e cambiamento

“Ci sono sempre due scelte nella vita: accettare le condizioni in cui viviamo o assumersi la responsabilità di cambiarle” (D. Waitley).

Un equivoco caratterizza il concetto di cambiamento. Quando diciamo “dobbiamo cambiare”, la reazione istintiva è una resistenza, una generica sensazione di pericolo o di difficoltà da affrontare. Il disagio in realtà è dato dalla necessità stessa di cambiare, che vuol dire che siamo già in una situazione negativa e poco appagante.
L’equivoco, una sorta di contraddizione interna che avvertiamo, è dato dal fatto che siamo abituati, fin dalla nostra infanzia, a cercare stabilità e certezze. Quindi ci adoperiamo sempre per trovare condizioni di sicurezza, in cui poter finalmente star fermi, godere l’attimo, e in cui immaginiamo di poter restare. È come se tutta la nostra vita fosse orientata a raggiungere un traguardo, una meta ideale che finalmente ci fa essere felici, in pace con noi stessi e il mondo. Questo stato psicologico e materiale, che perseguiamo come una chimera, è concepito come statico, tranquillo, poco mobile, l’esatto contrario del dinamismo, della frenesia e del continuo rincorrere qualcosa.
Quello che abbiamo viene confuso con ciò che siamo. L’attaccamento all’Avere (cose, oggetti, esperienze, rapporti) rinforza apparentemente l’Essere. Cambiare, uscire dalla nostra zona di confort, è percepito come rischio di perdere quello che abbiamo e, quindi, ciò che pensiamo di essere come persone. Di fronte al cambiamento, la nostra identità si sente minacciata.
Cambiare diventa andare incontro ad un altro me stesso. E questo fa paura, provoca quella “resistenza al cambiamento”, che fa parte della psicologia di ciascuno di noi. Dietro qualunque resistenza c’è sempre la paura e, oggi più che mai, la grande liquidità della realtà esterna ci espone a questo perenne stato di paura.
Perciò, perché cambiare? Perché modificare la strada vecchia per la nuova, perché dovremmo accettare di essere sempre diversi piuttosto che identici a se stessi?
Il cambiamento fa parte della natura stessa della vita, nell’intervallo fra la nascita e la morte, con il costante fluire dell’esistenza, ben oltre il limite stesso della nostra esperienza terrena. “Panta rei”, tutto scorre.

Il divenire

“La vita è cambiamento e quando non c’è niente che cambia, non c’è niente che vive. Tutto ciò che vive si muove. Il cambiamento pertanto è inevitabile. È la natura della vita stessa” (N.D. Walsch).

Il divenire è condizione ineludibile, eppure è associato genericamente all’angoscia esistenziale. Temiamo costantemente di dover lasciare qualcosa, di perdere la nostra identità, il nostro status, come se dovessimo sempre divenire altro-da-sé. In realtà il divenire altro non è che il mutamento della nostra forma, del modo in cui ci mostriamo nella nostra storia di vita. La sostanza (il nostro Sé) è sempre la stessa, permane lungo tutto il nostro percorso, dalla nascita alla morte. E anche oltre.
Non c’è cambiamento senza un iniziale disequilibrio. Ogni vera e profonda trasformazione avviene sempre dopo una “crisi”, ossia dopo una frattura fra un vecchio e un nuovo equilibrio: l’equilibrio precedente si spezza e mette in crisi il nostro assetto raggiunto (krisis, etimologicamente vuol dire frattura).
Il processo di trasformazione comporta l’accettazione di uno stato transitorio di smarrimento, un senso di provvisoria instabilità, un sovvertimento che sfocia poi un nuovo accomodamento. Fino alla prossima tappa.
Questo vale sia per lo sviluppo umano individuale (ontogenesi), sia per l’evoluzione collettiva in generale (filogenesi).
“Chi lascia la vecchia via per la nuova, sa quello che lascia ma non sa quello che trova”, recita un vecchio proverbio, che invita semplicemente alla prudenza, non a non “star fermi”.
Nella lingua cinese la parola crisi si rappresenta con due ideogrammi: uno vuol dire pericolo, l’altro vuol dire opportunità. Il cambiamento esprime quindi la capacità di cogliere il nuovo come opportunità e non come pericolo. Sta solo a noi dunque accettare o meno il fluire delle cose. Se lo accogliamo, possiamo sperare di orientarlo secondo i nostri desideri.
La differenza sta nella coscienza che abbiamo di questo processo, nella consapevolezza profonda con cui sostiamo nel presente e lo accompagniamo dinamicamente verso il futuro. Qualunque gioia o dolore, qualunque conseguenza questo possa comportare.
Se la vita è continuo divenire, noi realizziamo compiutamente noi stessi solo se assecondiamo questo divenire, perché diventiamo veramente noi stessi accettando la nostra evoluzione. Cambiare non significa tradire noi stessi, diventare un altro. È l’opposto.
Il nostro vero Sé (che si riconosce nella nostra anima), l’essenza profonda di ciò che siamo, è unico e permanente. Sono le cose esterne, la realtà che ci circonda ad essere mutevoli, transitorie ed impermanenti. Il divenire non è in contraddizione con la permanenza.
Il nostro destino umano si caratterizza come “eterno divenire del medesimo” (E. Severino). Ciò che cambia è quello che appare, come la legna che arde fino a diventare cenere, o le immagini di una pellicola che svolge il film dall’inizio alla fine.

Tutte le volte che non sentiamo amore, dalle cose, dalle relazioni, da ciò che facciamo o riceviamo, tutte le volte che qualcosa ci limita, ci opprime, ostacola i nostri propositi, provoca in noi sentimenti, stati d’animo ed emozioni sgradevoli, possiamo essere certi che qualcosa nella nostra vita non funziona. Se questa cosa non è solo un episodio, ma si protrae nel tempo, non c’è bisogno dell’oracolo, della fattucchiera, dello psicologo o del medico per dirci che non va bene, non fa bene alla nostra salute e di conseguenza alla salute di chi ci sta attorno.
Bisogna allora darsi da fare per cambiare. Senza scuse, senza alibi, e senza procrastinare, rimandando di giorno in giorno e aspettando il momento giusto, che non arriva mai.
“Se vuoi ottenere qualcosa che non hai mai avuto, devi essere pronto a fare qualcosa che non hai mai fatto”.

Cambiamento e trasformazione

“Esistere è cambiare; cambiare è maturare; maturare è continuare a creare sé stessi senza fine (H. Bergson).

Cambiamento vuol dire trasform-azione, agire attivamente con consapevolezza per completarci in pienezza, in un divenire che è continuità di sé. Significa essere fedeli a sé stessi, rispettarsi e non smarrire o spezzare il filo della propria esistenza. Portare a compimento il compito cui siamo chiamati in questa vita.
Cambiare può far paura, fintanto che è pensato come “morire a sé stessi”. Invece è proprio star fermi che significa morire psicologicamente: vivere è cambiare!
Eppure comunemente è così: paradossalmente sono le persone più infelici quelle che più temono il cambiamento. La maggior parte si accontenta di sopravvivere, di trascinare stancamente ed infelicemente la propria vita. Perché? Semplicemente perché vince la paura.
Si ha paura di cambiare, perché si teme di perdere qualcosa, per qualcos’altro che non siamo certi di ottenere. L’angoscia di fronte all’imprevisto vorrebbe cautelarci da qualche (presunto) pericolo, in realtà ci espone all’infelicità (certa), e al blocco dei desideri verso una più piena e gratificante realizzazione.
Si preferisce allora rinunciare al rischio di vivere, si interrompe il cammino evolutivo; si sceglie di non scegliere (che è comunque una scelta!), rinunciando all’impresa di realizzare se stessi.
Resistere al cambiamento per la paura di affrontare il nuovo, l’illusione di poter permanere immobili nella propria “zona di confort”, è una stasi del normale fluire dell’esistenza, un blocco della vita.
L’angoscia dell’ignoto è dovuta al trionfo del nichilismo contemporaneo, che di fatto ha inculcato l’idea che “siamo nulla” e che “polvere siamo e polvere torneremo”.
La fede nell’esistenza ci dice invece che “noi siamo” e che è impossibile passare al “non siamo”.
Una negazione della vita (phisis) concettualmente insostenibile, come dimostra la stessa scienza (non la religione!).
Il nostro peregrinare nella vita è l’ eterno fluire del medesimo: è la conferma della nostra esistenza che si trasforma ma rimane nella sostanza fedele sempre a se stessa.

Quando le cose non vanno, quando l’insoddisfazione della propria vita diventa viscerale, profonda e non più tollerabile, proprio quando siamo lì al bivio della rinuncia o della rassegnazione, è proprio quello il momento giusto per cambiare. Per farlo abbiamo bisogno di abbandonare la nostra rassicurante quotidianità fatta ormai difensivamente di cose spente e poco edificanti.
La vita è come un’eco, diceva Joyce, se non ti piace quello che ti rimanda, devi cambiare il messaggio che invii. Se non fai nulla e non reagisci, se non fai nulla per cambiare quello che non ti piace, il rumore di fondo di una vita vuota si fa ancora più assordante! L’unico modo è decidere di prendere la parola e dire la tua. Forte e chiaro.
Se dunque la nostra vita non gira, non funziona, e le cose o le persone che abbiamo intorno non ci piacciono, dobbiamo per prima cosa liberarci della convinzione che siano le cose, siano gli altri a dover cambiare. Un cambiamento vero e profondo inizia invece sempre da noi stessi. A cominciare proprio dalla convinzione di ciò che va cambiato e dalla consapevolezza di doverlo fare in prima persona.
“Non si trasforma la propria vita, senza trasformare sé stessi” (S. de Beauvoir).
Non puoi cambiare il mondo prima di aver cambiato te stesso. Cambiare gli altri non è attuabile e nemmeno necessario. Se cambi te stesso, ti accorgi che cambia anche la tua rappresentazione sociale.

“Per vedere un’altra storia, basta sostituire il film, non devi assalire lo schermo!” (N. Maharaj).
È già difficile cambiare noi stessi, figuriamoci se abbiamo il potere di cambiare gli altri! Il motivo vero, più profondo della nostra insoddisfazione sta sempre nella mancanza di potere che noi abbiamo su noi stessi. Se aspettiamo che qualcosa cambi dall’esterno, ci condanniamo all’impotenza, a dipendere dagli altri o dagli eventi, rimanendo magari inermi a compiangerci e a lamentarci, con buona pace di chi dovrà continuare a sorbirsi la negatività assunta a filosofia di vita.
Noi, infatti, non siamo monadi isolate, noi siamo esseri essenzialmente relazionali. Ma perché la relazione funzioni, sia fonte di gioia e gratificazioni, è essenziale che le persone stiano bene. Se io sto male, inevitabilmente faccio star male gli altri. Cambiare allora non è un fatto egoistico, ma relazionale. Avviene nell’interesse mio e di chi mi sta vicino. Non è un’esigenza solamente personale ma sociale.

“Poco importa sapere dove l’altro sbaglia, perché lì non possiamo fare molto. È interessante sapere dove sbagliamo noi stessi, perché lì possiamo fare qualcosa” (C.G. Jung).
Noi non abbiamo potere sugli altri o sulle cose, ma quel poco o tanto potere che abbiamo su noi stessi o sulle situazioni in cui viviamo, dobbiamo riprendercelo, non delegarlo più a nessuno. Dobbiamo smettere di attenderci che qualcuno faccia qualcosa per noi. Noi in prima persona dobbiamo fare il cambiamento, non aspettare che il cambiamento avvenga da solo o addirittura siano gli altri a cambiare.
Anche nelle situazioni più difficili o impossibili da modificare, abbiamo sempre la possibilità di fare qualcosa, abbiamo sempre l’opportunità di cambiare il nostro atteggiamento verso la causa della nostra insoddisfazione o sofferenza. Da passiva rassegnazione ad una accettazione consapevole della nostra responsabilità sulla nostra vita, c’è una sola incontrovertibile legge da rispettare: se non riesci a cambiare nulla, non puoi pretendere che cambi qualcosa nella tua realtà.
Se niente cambia, non cambia nulla!
Se poi il desidero di cambiare il mondo non è un sogno solitario, ma diventa un sogno condiviso, allora questo desiderio può divenire l’inizio di una nuova realtà comune. Analogamente al cambiamento individuale, così avviene per il cambiamento della nostra vita relazionale o sociale. Tutti sogniamo la miglior vita possibile, ma quanti di noi sono poi disposti a correre il rischio di cadere e fallire andando incontro ai necessari cambiamenti? È solo correndo il rischio insito in ogni nuovo incontro che si può cercare di amare e farsi amare.

Il coraggio di cambiare

“Per scoprire come spingerti oltre i tuoi limiti devi prima capire quali sono le paure che ti impediscono di farlo. Altrimenti resti fermo al punto di partenza, pieno di buoni propositi ma senza compiere alcuna azione” (V. Bilotta).

Quando stai male, quando, nonostante l’impegno e gli sforzi che metti in atto, la tua vita sembra in stallo e ti trascini l’impressione di avere una palla al piede, con un senso di frustrazione e insoddisfazione lacerante, allora è necessario cambiare. Non per gli altri, non perché te lo chiedono gli altri, ma per te stesso. Lo devi solo a te: un “dovere” per ritrovare il “piacere” di vivere.
Ogni cambiamento può avvenire solo se sussistono in sequenza queste tre condizioni: la presa di coscienza dell’esistenza di un problema o di una situazione non più sostenibile; la consapevolezza di uno stato di disagio o sofferenza, che diviene la spinta al cambiamento; la capacità di tradurre in azione concreta e in comportamenti finalizzati, quello che si prova e si sente, sul piano cognitivo ed emozionale.
Il più delle volte, nonostante dall’esterno sia evidente a chi osserva da vicino la necessità di cambiare, le persone non riescono a modificare nulla della propria vita perché mancano internamente delle condizioni necessarie. Altre volte mancano invece solo della parte finale, ossia quella di collegare pensiero ed azione, mettendo in pratica ciò che hanno acquisito a livello mentale. Nel primo caso la necessità di cambiamento si traduce in sofferenza fisica o psicologica. Nel secondo si avverte un persistente stato di frustrazione e insoddisfazione, per il senso di impotenza a cambiare la propria situazione.
Qualche volta anche in psicoterapia si arriva a questo stallo, per l’incapacità di andare oltre il piano cognitivo, a causa di un lavoro interpretativo condotto prevalentemente a livello razionale, scarsamente efficace a livello più profondo.

Andare oltre

“È impossibile imparare per un uomo che crede di sapere già” (Epitteto).

Non apprendere mai le lezioni della vita, non saper leggere i significati che ci trasmettono certe esperienze, è purtroppo molto comune. In genere, si preferisce pensare che il problema sia la vita, la realtà esterna a noi, evitando spesso di assumerci la responsabilità che ci compete.
La vita insegna ma, a quanto pare, siamo noi che non abbiamo voglia di imparare! Così, inconsapevolmente, continuiamo a proporre gli stessi atteggiamenti, gli stessi comportamenti, gli stessi schemi, ed inevitabilmente gli stessi sbagli. Anche quando abbiamo coscienza della nostra coazione a ripetere, preferiamo pensare che non dipenda da noi, ma dalle circostanze, dagli eventi, dagli altri. Ci consegniamo così al nostro destino, con la convinzione che non possiamo farci nulla. Come è possibile pensare che le cose possano cambiare se continuiamo a fare sempre le stesse cose?
In ogni situazione, anche la più difficile, noi abbiamo sempre la possibilità di fare qualcosa, il potere – piccolo o grande che sia – di innescare un cambiamento.
È la nostra capacità di reagire che fa la differenza, anche quando dobbiamo accettare dolori e difficoltà inevitabili, anche quando i problemi che dobbiamo affrontare sono oggettivamente difficili e qualche volta insormontabili.
Anche la mente più erudita ed evoluta ha quindi sempre la possibilità di apprendere qualcosa dalla vita.

Accettazione

“Concedimi la serenità di accettare le cose che non posso cambiare, il coraggio di cambiare le cose che posso, e la saggezza per conoscere la differenza” (R. Niebuhr).

Non sempre le cose si possono cambiare. Ci sono situazioni, interne o esterne a noi, che accadono al di là delle nostre intenzioni e della nostra volontà. Qualche volta si deve prendere atto che la realtà non può essere cambiata, e bisogna trovare la forza per accettarla. Non è sempre facile, ma è possibile.
Anche di fronte alla difficoltà più grande noi possiamo comunque fare qualcosa, esercitare quel poco o tanto potere che abbiamo in ogni circostanza della vita. Se cambiare quello che non va non dipende da noi, a noi rimane la possibilità di cambiare il nostro modo di pensare e di reagire al problema.
La passività di fronte agli eventi si chiama rassegnazione e si accompagna sempre ad un vissuto depressivo di impotenza e fatalità. “Non ci posso fare niente” è solo un’apparente rinuncia, è di fatto un malcelato “piangersi addosso” che nasconde il desiderio illusorio di una soluzione, impossibile o che forse potrebbe venire da qualcun altro. E che di fatto blocca il nostro andare avanti comunque.
Ma se decidiamo di accogliere pro-attivamente quello stesso stato di fatto, la rassegnazione diviene accettazione e quella che l’accompagna è una realistica consapevolezza su ciò che ci accade e l’inevitabile sofferenza che comporta. Un dolore che diviene sempre più tollerabile, anche se comporta la disillusione dei nostri sogni grandiosi e delle nostre aspettative. Una rinuncia parziale che non invalida tutto il resto della nostra vita.
Questo passaggio diviene il segno positivo di un rinnovato potere sulla nostra mente. Rinsalda la nostra autostima e attiva la capacità di cercare un nuovo equilibrio.

L’abitudine

“L’abitudine è la più infame delle malattie, perché ci fa accettare qualsiasi disgrazia, qualsiasi dolore, qualsiasi morte. Per abitudine si vive accanto a persone odiose, si impara a portare le catene a subire ingiustizie, a soffrire, ci si rassegna al dolore, alla solitudine, a tutto. L’abitudine è il più spietato dei veleni perché entra in noi lentamente, silenziosamente e cresce a poco a poco nutrendosi della nostra inconsapevolezza, e quando scopriamo d’averla addosso ogni gesto s’è condizionato, non esiste più medicina che possa guarirci” (O. Fallaci).

Quando l’abitudine diventa ripetitività noiosa, costrizione, necessità subita, si pone il problema di cambiare qualcosa. L’insoddisfazione avanza ma accampiamo mille resistenze a modificare i nostri modi abituali, i gesti, le azioni, le cose concrete ormai quotidiane, che ci appaiono grigie, passive, mortifere. Anche le parti peggiori del nostro carattere ci appaiono come cattive abitudini, di cui non possiamo più sbarazzarci (“è il mio carattere!”).
Invece cambiare è sempre possibile. Occorre ripristinare lo sguardo oltre la quotidianità e recuperare le nostre aspettative perdute. Affrontare lo sforzo di vincere l’inerzia e la paura, che ormai sono come un tappo dello slancio vitale.
È uno sforzo che può essere affrontato con prudenza, pazienza e allenamento, come una sorta di riabilitazione. È essenziale coltivare la convinzione di voler accompagnare fuori dalla porta, dalla nostra vita, l’abitudine che ci sta soffocando. Dobbiamo in ogni caso averne consapevolezza e desiderare fortemente cambiare quell’abitudine che non riteniamo più funzionale a noi stessi, non è più sintonica ma egodistonica.
Come dice Gaber, non ci si può liberare dell’abitudine in un colpo solo, “bisogna farle scendere le scale un gradino alla volta.”

La difficoltà delle scelte

“Dovete rinunciare alla vita che avete per ottenere la vita che vi sta aspettando” (J. Hillman).

Nella vita ogni possibilità di evolvere passa dunque attraverso il cambiamento; e ogni cambiamento comporta di dover modificare qualcosa della situazione attuale. Eppure, anche quando stiamo male o siamo insoddisfatti non ci è facile cambiare. Non è solo la paura del nuovo che ci blocca, ma il distacco dalle nostre certezze presenti. Spesso l’attaccamento alle cose smette di essere semplicemente un legame e diventa un vincolo soffocante.
Ogni cambiamento porta con sé inevitabilmente la rinuncia a qualche aspetto della nostra vita. Ogni volta che facciamo una scelta, di fatto rinunciamo alle altre possibilità. Scegliere una strada comporta necessariamente di dover rinunciare a tutte le altre alternative possibili. Ad un bivio, o prendi una strada o prendi l’altra. Di fronte ad una scelta diventiamo incerti, ci assalgono ansie e timori. Rimaniamo così fermi, sospesi nel dubbio, sperando di non dover decidere nulla, sperando di non dover rinunciare mai a nulla.
È dunque la paura di perdere ciò che abbiamo che ci impedisce di scegliere. Ed è per questo che risulta spesso difficile scegliere e prendere decisioni. Ogni cambiamento implica la necessità di lasciarsi dietro qualcosa. Ogni scelta, ogni conquista, che sia qualcosa di materiale oppure affettivo o relazionale, porta con sé inevitabilmente la rinuncia a qualche aspetto della nostra vita. Anche quando si deve scegliere qualcosa di bello. Se scelgo quella cosa, devo necessariamente rinunciare ad altre cose, che sono alternative, o in contraddizione.
Non scegliere (continuando a procrastinare), a livello inconscio rappresenta la pretesa di non voler rinunciare a nulla.
Ci aggrappiamo, inconsapevolmente, all’illusione di poter avere tutto, senza rinunciare a nulla. Così evitiamo, procrastiniamo le decisioni, per paura di scegliere. Il risultato è scontato in partenza. Rimandando la scelta, per l’incapacità di accettare le necessarie rinunce, in realtà ci condanniamo a privarci di una nuova possibilità. Lasciando così di fatto agli altri di scegliere al posto nostro, di orientare per noi il nostro cammino.
Per mantenere l’illusione di non lasciare nulla, di fatto corriamo il rischio di perdere tutto. Scegliere comporta dover abbandonare definitivamente questa illusione. Non esiste scelta che non comporti rinuncia.
“Le decisioni devono essere prese con coraggio, distacco e talvolta con quella dose di follia che conduce il passo al di là dei propri limiti” (P. Coelho).
Solo accettando il distacco dal “vecchio” può finalmente irrompere il “nuovo” nella nostra realtà.

Paura e cambiamento

“Al mondo vi è un’unica via che nessuno oltre a te può fare. Dove porta? Non domandare: seguila” (F. Nietzsche).

In un’epoca di grande frenesia, piena di impegni, avvenimenti, eventi, appare paradossale l’inerzia di fronte alla necessità di agire per cambiare. Di fronte alle cose che non vanno, all’insoddisfazione, alla delusione crescente, si continua a pensare, fare ipotesi, lamentarsi e procrastinare. C’è un’ipertrofia del pensiero che non produce nulla, se non conseguenze interne, stress o confusione mentale.
È sempre la paura che ci blocca, ci rimanda a pensarci ancora, e ancora, incessantemente. Ed è sempre dietro quella paura la risposta alle vere domande che dobbiamo porci.
Siamo proprio sicuri che la vita che abbiamo è quella che volevamo? Se non avessimo paura, cosa faremmo veramente, non teoricamente, ma autenticamente?
Quando non si agisce perché lasciamo vincere la paura, ci precludiamo la strada verso la verità, verso quello che potrebbe darci un senso di maggiore libertà e realizzazione.
Se non rischi nella vita, è come se avessi deciso che non vuoi più cambiare. Se rinunci per paura di perdere, hai già perso in partenza. Allora anche un piccolo passo è vitale, per andare oltre la stagnazione mortale.
“Tu non sai mai quali risultati produrrà la tua azione. Ma se non fai nulla, non ci saranno risultati” (M. Gandhi).
Non è obbligatorio cambiare, ma è indispensabile per uscire dallo stallo del pessimismo e dello scoramento rassegnato.
Sempre che non si preferisca la scorciatoia, apparentemente più facile, di rimanere semplicemente un individuo, rinunciando alla prospettiva di diventare una Persona.

“… E non sarà che a questo mondo ci sono sempre più Individui e sempre meno Persone?”>(Mafalda).

1

Circa l'autore:

Dr. Roberto Calia Psicologo Psicoterapeuta Milano
  Post correlati

Aggiungi un commento


Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.