L’illusione della felicità
”La strada per la felicità non è dritta.
Esistono curve chiamate Equivoci.
Esistono semafori chiamati Amici,
Luci di precauzione chiamate Famiglia.
E tutto si compie se hai:
Un cerchione di risposta chiamato Decisione.
Un potente motore chiamato Amore.
Una buona assicurazione chiamata Fede.
E abbondante combustibile chiamato Pazienza.”
(A. Jodorowsky)
Comunemente pensiamo alla felicità come uno “stato” (materiale e mentale) da raggiungere, qualcosa di meraviglioso che, prima o poi, costi quel che costi, dobbiamo conquistare, definitivamente.
Così facendo spostiamo in avanti, nel futuro, quel momento “magico” che (sognando) chiamiamo felicità.
Questa idea di Felicità è francamente una illusione.
Viviamo in un’epoca in cui si rincorre, in modo ossessivo, il “godimento”, un piacere esterno che noi attribuiamo alle cose, che cioè ci deriva da fuori, dagli altri.
Così finiamo col cadere vittime della compulsione di piacere agli altri: il nostro piacere deriverebbe quindi dallo sforzo continuo di ricevere un riscontro positivo, il gradimento dagli altri, una emozione precaria, insicura, il cui potere di attivazione è fuori di noi e di cui noi siamo solo dipendenti.
Così diventa “io mi piaccio perché piaccio agli altri”, e si trasforma in un vuoto sentimento di sé quando siamo soli.
La ricerca del piacere è una pulsione fondamentale e naturale della vita, che si alimenta dalla continuità circolare degli opposti (vita-morte, bene-male, giusto-ingiusto, piacere-dolore).
Ma è il suo “obbligo” che è diventato il problema.
L’assenza di qualcosa non è tout court presenza di qualcos’altro.
Togliere un dis-agio, non comporta automaticamente agio; piacere o dispiacere seguono percorsi diversi, richiedono risorse diverse.
Affrontare la sofferenza, il dolore è cosa diversa dal perseguire il ben-essere.
L’assillo principale è quello del piacere e del suo accumulo che, illusoriamente, si traduce nella ricerca della felicità a tutti i costi.
La felicità, intesa o prefigurata come stato (mentale o materiale) permanente, non esiste.
È un’illusione, specie se concepita come legata ad un merito, come conquista: diventa una chimera che si allontana quanto più la cerchi.
La felicità non è un’emozione, uno stato o una condizione della mente, è piuttosto una modalità, che può essere perseguita e mantenuta di per sé, nonostante le vicissitudini della vita.
Pensando metaforicamente ad un pianoforte, la vita è come una composizione melodica, la cui armonia non si esprime solo nelle ottave più estreme (gli acuti e i bassi che pure fanno parte della composizione).
La parte migliore, che spesso ne fa il successo, è quella che si suona con le ottave centrali, che rappresentano il cuore (il ritornello) dell’intero spartito.
Al di fuori dei grandi dolori o degli eventi importanti della nostra esistenza (che sono comunque limitati e circoscritti), esistono invece ampie possibilità in cui l’uomo può trovare appagamento, più o meno duraturo, nelle cose quotidiane della propria esistenza; semplicemente vivendo ciò che ci accade, dentro (come emozioni, sentimenti, pensieri) o fuori (eventi, azioni, comportamenti).
Accogliendo con umiltà (non superbia) il fluire delle cose, cercando di apprendere costantemente da esse (non respingendole difensivamente o negandole) e traendone esperienza.
La vera felicità non è quindi uno stato, né fisico né psicologico, che si raggiunge una volta per tutte, ma una modalità interiore del nostro “essere persona”.
È una predisposizione del nostro “stare nel mondo”, una condizione cosciente in eterno divenire, che non si associa necessariamente ad un evento esterno.
Questa modalità non dipende dagli altri ma da noi stessi.
È la nostra capacità di rimanere in sintonia con la nostra vera natura, “allineando” il nostro corpo con la nostra mente e la nostra anima.
Si acquisisce coltivando l’amore di sé, un amore caldo, sereno e profondo che è l’esatto contrario del narcisismo spasmodico del giorno d’oggi.
Una simpatia verso se stessi (chiamiamola pure autostima) che si traduce empaticamente in “compassione” (ossia, sentire insieme) verso gli Altri, riconosciuti come persone che hanno esattamente i medesimi bisogni di base e gli stessi “diritti” ad essere felici.
Oltre il piacere, la gioia
“Semina gentilezza, coltiva serenità, cogli la gioia” (F. Caramagna).
All’origine di questa modalità dell’essere Persona, ci deve comunque essere la familiarità con il sentimento della GIOIA, ossia di quella capacità niente affatto scontata di contenere in noi ed esprimere verso gli altri un’emozione profonda fatta di semplicità, autenticità e beatitudine.
La capacità di emozionarsi e di gioire, di godere dei più semplici “frammenti di vita”, appartiene potenzialmente a tutti, è “gratuita”, facilmente fruibile perché non è necessariamente legata alle cose o dipendente dagli altri, ci può derivare anche dall’esterno ma è essenzialmente un’esperienza interna, profondamente personale.
Se non recuperiamo l’accesso a questa emozione primaria, basilare, non saremo mai capaci di concepire e provare nessuno stato di autentica felicità, al di là della temporalità o della sua realistica durata.
Se non siamo capaci di provare gioia per le piccole cose, più personali che sociali, qualcosa che non necessariamente è uno “stupendo” evento oggettivo, come potremmo mai sperimentare la felicità che tanto aspettiamo e che dovrebbe essere proprio la capacità di esprimere la gioia alla massima potenza?
La capacità di gioire nelle e con le piccole cose della nostra quotidianità, che rappresentano lo scenario abituale e prevalente della nostra esistenza, è l’unità di base del nostro star-bene.
Questa è la prospettiva psicologica e materiale che abbiamo il diritto (e il dovere) di perseguire nel nostro essere al mondo, in noi e nel rapporto con gli altri.
Non rincorriamo dunque inutilmente la felicità come un gatto che corre dietro alla sua coda.
Se smettessimo di cercarla ossessivamente e ci impegnassimo semplicemente a vivere?!…
“La felicità è come un gatto che corre dietro alla sua coda.
Più la rincorre e più gli sfugge.
Ma quando si impegna in altre cose,
la coda gli viene dietro ovunque lui vada.”
LUG
Circa l'autore:
Dr. Roberto Calia Psicologo Psicoterapeuta Milano