Diventare grandi: i giovani adulti
La psicoterapia dei giovani adulti si sta da qualche tempo imponendo all’attenzione della psicologia, delle scienze sociali e della psicoanalisi.
Ragioni di ordine sociale, culturale, economico e tecnologico sono senza dubbio all’origine di questo nuovo fenomeno di rilevanza sociale. D’altro canto gli strumenti teorici e metodologici, consolidati nel trattamento dei disturbi psichici degli adolescenti e degli adulti, non sembrano sufficientemente in grado di comprendere questa nuova fase di sviluppo. Si và delineando in modo sempre maggiormente definito un nuovo periodo evolutivo, che comprende grosso modo i giovani fra i 20 e 35 anni, soggetti che, avendo caratteristiche differenti tanto dall’adolescenza quanto dall’età adulta, presentano problematiche specifiche e quindi richiedono modelli concettuali e modalità di intervento altrettanto specifici.
Delineerò ora il riferimento teorico-clinico al quale mi rifaccio, che possa servire da filo di Arianna, per orientarci all’interno dei problemi e dei processi in atto, sintetizzati nei casi che sottopongo alla vostra attenzione.
Cercheremo alla fine di capire quali temi comuni possono attraversare storie così differenti e quindi ipotizzare il compito evolutivo che i giovani debbono compiere per fare il salto nel mondo, da essi stessi assai ambivalentemente percepito dagli adulti.
La necessità di approfondire gli studi sulla psicoterapia dei giovani adulti deriva evidentemente dal riscontro nella pratica clinica dell’inadeguatezza esplicativa (e terapeutica) dei concetti più generalmente accettati per l’approccio alle problematiche adolescenziali vere e proprie.
Il richiamo in adolescenza ai processi di separazione-individuazione è generalmente condiviso. Secondo la definizione di Senise i processi di individuazione sono “quei processi endopsichici che consentono la costituzione soggettiva della propria identità, come immagine della persona nella propria totalità… I processi di individuazione consentono la costituzione, la permanenza e la continuità del Sé come un intero, pur nel suo continuo modificarsi nella sua rappresentazione spazio-temporale …Il vissuto dell’immagine globale ed unitaria del sé costituisce l’identità personale”. Certamente nella fase della vita che stiamo considerando il processo di formazione dell’identità personale non è compiutamente definito (ammettendo che questo processo abbia in genere mai termine….), ma è altrettanto evidente nella pratica con pazienti giovani adulti che la drammaticità dei processi di separazione – con le continue oscillazioni di tensione ed angoscia, stati luttuosi e depressivi, e il disinvestimento degli oggetti d’amore infantili – tenda progressivamente a concentrarsi attorno al primato della differenziazione dagli altri e all’affermazione del Sé nella sua complessità. Per comprendere meglio questa fase della vita è opportuno dunque lavorare in modo specifico ed in profondità sul Sé, sia dal punto di vista concettuale che fenomenologico.
L’introduzione del concetto del Sé in psicoanalisi è dovuto in parte ad Hartmann che, nel 1950, ha proposto di distinguere le nozioni di Io (istanza psichica, sottostruttura della personalità), il Sé (l’intera persona, ossia il suo corpo, la sua organizzazione psichica e le sue parti) e le rappresentazioni del Sé (rappresentazioni endopsichiche inconsce, preconosce e consce del Sé corporeo e mentale nel sistema dell’Io). Sostanzialmente da Hartman il Sé è concepito come il polo di investimento della libido narcisistica, in quanto contrapporta al polo oggettuale, il mondo esterno. Fin dal suo esordio in ambito psicoanalitico, il concetto di Sé è stato dunque indissolubilmente legato al concetto di narcisismo.
Non è questa la sede per uno studio approfondito sulle interconnessioni e soprattutto sulle parziali sovrapposizioni concettuali di termini quali Io , Sé e narcisismo. Basterà qui un richiamo agli autori che maggiormente mi hanno influenzato nella costruzione del mio paradigma teorico-metodologico. Da un lato possiamo senz’altro ascrivervi alcuni esponenti della cosiddetta Scuola inglese delle relazioni oggettuali (Balint, Winnicott e soprattutto Fairbairn e Guntrip); dall’altro il richiamo a Kohut e, solo marginalmente, a Kemberg, è altrettanto obbligato.
E’ necessario però precisare in che senso io utilizzi questi concetti nella pratica clinica e nella mia vita personale, anche per giustificare il titolo della mia relazione. D’accordo con Duruz, esplicito il mio rifiuto a considerare i concetti di Io, Sé e narcisismo in termini astratti o reificanti; prendo dunque distanza da interpretazioni di tali concetti in termini strettamente psicologistici o biologistici, per pensarli invece in termini soprattutto di “processo”. In questo senso considero il Sé e il narcisismo come rappresentazioni psichiche, come stati processuali di un organismo vivente la cui natura fondamentale è la relazione con l’altro e la cui matrice energetica è la tensione relazionale fra il soggetto e l’oggetto. Questo organismo vivente, reale e “corporeo”, con i suoi bisogni istintuali e le sue produzioni psichiche, è la persona.
“La meta maturativa del Sé è la persona – dice Lopez – solo l’avvistamento della meta nella fenomenologia del Sé permette di evitare deviazioni e svolte regressive, vie cieche nel pensiero e nel metodo della psicoanalisi. Questa meta è la persona e l’area relazionale del rapporto persona-persona, l’area della genitalità “.
Per un approfondimento del concetto di persona che Davide Lopez ha introdotto nello scenario psicoanalitico fin dagli anni sessanta, rimando alle sue opere più significative. Per gli scopi di questo contributo ci basta pensare alla persona come al passaggio dell’individuo ad una superiore posizione dello sviluppo psichico, un individuo dunque non più “ frantumato e disintegrato“, così come è stato concepito nelle teorie strutturali della mente, ma “ricomposizione e ristrutturazione armonica di tutte le istanze fondamentali dell’individuo, dell’Es, dell’Io, del Super-Io e dell’Io ideale“. La persona nasce dal “superamento del trascendimento dell’individuo episodico, transeunte“, legato al tempo e allo spazio, intesi in senso mondano e fisicistico; un individuo passato dunque attraverso il crollo dell’Io fallico-megalomanico, dell’Io edipico, dove l’accento è posto sulla rinascita e sulla prospettiva, oltre la tragedia, la paura della follia e della morte. Questo individuo trapassato è la persona. Per Lopez, la persona è dunque la “terra promessa”, metafora dalla maturità, concepita non come semplice integrazione di parti della personalità o adattamento alla realtà esterna, ma come posizione libidico-emotiva e mentale, mai compiutamente definita, in continuo rinnovamento ed arricchimento.
In che senso dunque il passaggio dal Sé, concepito come “ motore evolutivo”, come “processo”, verso la persona può essere individuato nella psicoterapia dei giovani adulti? E quali sono i travagli, le paure specifiche, espressi nelle più diverse forme di disagio, di sintomatologie, di manifestazioni psicopatologiche e comportamentali che i giovani debbono affrontare per entrare nel “giardino dell’Eden” della genitalità e della persona? Cercherò di descriverlo, con la sintesi di alcuni casi concreti tratti dalla mia pratica clinica, con specifico riferimento alla psicoterapia dei giovani adulti.
Primo caso
Antonio ha 26 anni, è in terapia da diversi anni, con una seduta settimanale. Ha iniziato la psicoterapia essenzialmente per affrontare il dolore per la perdita di un amore, una coetanea con la quale aveva “transitato” dall’infanzia sino a qualche anno prima dell’incontro con me. Il lungo fidanzamento si era trascinato per tanti anni fra continui litigi, incomprensioni, accuse reciproche, lunghe chiarificazioni elucubratorie (del tipo : “io pensavo che tu pensassi che io avevo pensato…” oppure: “tu hai fatto così perché ti aspetti che io faccia cosà…”, e così via!). Quando Antonio ha iniziato la terapia, la decisione di concludere il loro rapporto non era stata praticamente presa da nessuno dei due, ma di fatto il fidanzamento si era sciolto. Lui ora viveva a Milano, lei era rimasta in una città della provincia. Quando avevano occasione di ritrovarsi (e all’inizio la cosa era assai frequente), riprendeva la sequela di rivendicazioni, amarezze, incomprensioni.
Antonio lavorava in una pubblica Amministrazione, non era soddisfatto del suo lavoro, frequentava l’Università, aspirava ad una attività libero-professionale. Presentava manifestazioni di diffuso malessere, a sfondo depressivo, ma conduceva una vita sociale praticamente normale. Una volta individuato nel legame di attaccamento“ alla sua ex-ragazza il tema principale del suo attuale disagio, andava però, potremmo dire, in “ cortocircuito” quando lo assalivano preoccupazioni ipocondriache su parti o funzioni del suo corpo. Quando questo succedeva, Antonio era in preda ad una angoscia fobica che gli impediva sostanzialmente di occuparsi d’altro. Un organo bersaglio “privilegiato” delle sue manifestazioni fobico–ossessive erano i testicoli, a causa di una vecchia orchite monolaterale, da virus della parotite infettiva, di cui era stato affetto anni fa. L’orchite comporta sostanzialmente una atrofia del testicolo, con diminuzione della funzione riproduttiva, ma è da escludere una compromissione obiettiva della funzione sessuale. Antonio per molti anni non ha mai apertamente parlato in terapia dei suoi problemi sessuali o di paure nell’area della sessualità, ma erano assai evidenti (e da me puntualmente evidenziate) le sue preoccupazioni a riguardo della sua potenza sessuale, delle sue prestazioni e soprattutto della sua capacità di godimento profondo nel rapporto. Particolare non irrilevante: Antonio non aveva mai fatto l’amore con la sua ex-ragazza, pur in tanti anni di rapporto ed avendo trascorso in diverse occasioni la notte insieme. Lei non si era mai sentita “pronta” e lui aveva sempre “rispettato“ questa posizione, senza mai spingere la tensione erotica fino al culmine: si era così creata una barriera invalicabile che, paradossalmente, non era mai stata fatto oggetto delle loro lunghe e “abili“ discussioni meta-relazionali.
Il lavoro psicoterapeutico si sviluppava in modo articolato, quasi senza ordine, occupandosi ora del legame irrisolto con la ex-fidanzata, ora delle sue preoccupazioni ipocondriache, ora delle sue insoddisfazioni lavorative e dei suo propositi di realizzazione. Con Antonio mantenere una stabile relazione empatica era difficile, spesso si chiudeva in lunghi silenzi impenetrabili, per aprirsi alla fine della seduta (in genera l’ultima della mia giornata, cosicché spesso mi “spingeva” ad uno splafonamento del tempo). Un paio di anni di terapia erano serviti a fagli elaborare il legame “profondo e sottile “ che ancora lo legava alla sua ragazza, fino al lutto per la conclusione della relazione, accettata finalmente sul piano reale ed emotivo; controllava meglio le incursioni fobico-ossessive sul versante somatico (nel senso che finalmente aveva smesso di fare pellegrinaggi pluri-specialistici senza esito…) ed aveva concluso brillantemente gli studi, con la laurea ed un successivo master di specializzazione, avviandosi concretamente ad intraprendere l’attività professionale tanto aspirata (lasciando anche il “posto pubblico“ mitico retaggio di sicurezza e protezione). Dopo alcune relazioni poco coinvolgenti con altre donne, si avviava ora finalmente a stabilizzare una relazione con una nuova compagna che sentiva molto simile a sé.
In questo nuovo rapporto finalmente emergevano tutte le sue insicurezze di base ( il “difetto fondamentale“ di Balint) ed i suoi bisogni narcisistici, di un amore sostanzialmente simbiotico-fusionale, onnipotente ed infantile. Il salto verso la genialità e la persona è ancora lontano, ma forse solo rinviato.
Secondo caso
E’ una ragazza esile, scattante, dinamica, di 24 anni. Lavora come impiegata e la sua vivida intelligenza la fa apprezzare in tutti gli ambienti che frequenta. E’ venuta da me parecchi mesi fa in preda all’angoscia perché ossessionata da pensieri ed immagini mentali “truculenti” (così da lei stessa definiti): in pratica era terrorizzata dall’idea di poter essere (o diventare) una serial killer!. Questi pensieri o flash mentali l’assalivano praticamente costantemente, sia quando era da sola, sia in compagnia dei genitori, del suo ragazzo o di amici, e si esprimevano in immagini (prevalentemente parziali ) di accoltellamenti improvvisi, colli sgozzati, incisioni di parti del corpo, violenze a bambini o vecchiette indifese. Era convinta di doversi assolutamente controllare mentalmente per evitare di mettere in atto i suoi pensieri, per evitare così di far emergere quella che temeva potesse essere la sua “seconda personalità”. Quello che a me colpiva nella relazione con questa paziente era l’assoluta assenza di “pericolo”: non emergeva da nessun elemento, né dai racconti (per lei) angosciosi di immagini che potevano “tranquillamente“ far gola a Dario Argento, né dai suoi gesti o dal suo modo di porsi nella relazione con me e nella realtà esterna, non solo la possibilità che lei potesse “agire” queste fantasie, ma soprattutto la consistenza di una esigenza interna di ferire, far del male, vendicarsi di qualcuno o di alcunché. Una volta le dissi che ero talmente sicuro di quel che sentivo che avrei potuto tranquillamente addormentarmi io sul lettino, in presenza di lei armata di qualunque coltellaccio da macellaio. Cominciò a fidarsi e rassicurarsi, temendo però ( ogni tanto) che potessi essere io in realtà il vero pazzo, potenziale e misconosciuto serial killer. Non fu difficile, in pochi mesi, contenere queste manifestazioni fobico-ossessive, svelando però precedenti manifestazioni delle stesse angosce (per anni dopo un rapporto sessuale con un ragazzo straniero aveva temuto di aver contratto l’AIDS, ed era ossessionata non solo dall’angoscia della malattia, ma soprattutto dal senso di vergogna e dalla riprovazione che avrebbe suscitato nei genitori. Cinzia è figlia unica di genitori anziani (il padre settantenne, la madre di qualche anno più giovane), due persone (mi viene da dire “due gran brave persone”) che avevano allevato la figlia con le più tipiche convinzioni delle “famiglie di una volta“: che la vita è dura, che bisogna lavorare ed essere indipendenti, rispettare i genitori e gli altri, essere concreti, semplici ed onesti (salvo per la sottolineatura eccessiva sulla vita dura, mi sentirei di sottoscrivere questo arcaico manifesto pedagogico!). Il distacco reale dai genitori era avvenuto, Cinzia se la cavava bene fra i divieti dei genitori, aveva una vita sociale intensa, era piena di iniziative, ed aveva le idee chiare su cosa voleva fare da “ grande”. La presenza dei genitori permaneva però “dentro“ Cinzia, attraverso il funzionamento di parti di un super-io rigido, soprattutto nelle aree della sessualità, del piacere e dell’affermazione di sé.
Man mano che Cinzia si prendeva carico delle sue evidenti esigenze di emancipazione da oggetti interni punitivi e persecutori, sostenuta da una relazione transferale molto empatica con me, si verificavano importanti cambiamenti nel suo funzionamento mentale. Prendeva più sicurezza nei rapporti con gli altri, esprimendo con maggiore equilibrio la sua aggressività nelle situazioni in cui era necessario: in passato ciò non era stato possibile perché la normale aggressività era confusa con la rabbia (narcisistica) ed assimilata a violenza e volontà di sopraffazione (da bambina Cinzia aveva vissuto in campagna, faceva cose “truculente” su piccoli insetti, aveva assistito a sgozzamenti di galline e di conigli e ad altre cose simili).
Ma soprattutto la sua sessualità poteva finalmente essere associata al piacere. In una seduta, pochi mesi dopo l’inizio della psicoterapia, con un pudico imbarazzo iniziale Cinzia mi dice che deve confessarmi una cosa: per la prima volta in vita sua si era masturbata e, cosa assai più “ sconvolgente “, le era pure piaciuto!. Non ricordo cosa le dissi, ma il senso fu che il vero peccato sarebbe stato solo se non avesse goduto!.
La scoperta della masturbazione (ponte transizionale verso l’approdo al rapporto sessuale reale) aveva rapidamente migliorato il suo rapporto affettivo ed erotico con il suo ragazzo, effettivamente un po’ imbranato (anche lui alle prime esperienze sessuali ), che veniva ora trascinato da Cinzia in appassionate performances sessuali.
Le immagini thriller e le idee di poter far del male a qualcuno diminuivano ed andavano sullo sfondo della sua esistenza reale; l’avesse tradita lo “avrebbe ammazzato“ , “gli avrebbe staccato il collo“ , oppure che a certe persone che parlano troppo non sarebbe male “tagliargli la lingua“!. Finalmente anche lei poteva accogliere dentro di sé il serial killer che c’è in ognuno di noi!
La relazione con se stessa e con il proprio corpo non sono però ancora armonizzati; pur essendo una ragazza assai carina, continua a fare confronti perdenti con “bellone“ da copertina o con pseudo-rivali che irrompono da tutte le parti. Inoltre viene in terapia praticamente ancora di nascosto dei genitori, perché teme di poterli ferire facendogli vedere una figlia in cura da uno psicologo, una sorta di “pazza che va dallo strizzacervelli” ( l’idea dei genitori, espressa categoricamente è che “quelli – psicologi, psichiatri e psi in genere – ti rovinano, ti spillano i quattrini, ti riempiono la testa di cazzate …”: onestamente in molte occasioni non mi son sentito di dar loro torto di tali convinzioni!).
Anche per Cinzia l’approdo al giardino dell’Eden della genialità è lontano, ma la strada intrapresa è già ricca di buone speranze.
Terzo caso
Paolo è un ragazzo “bello ed aitante”, di 24 anni. Viene in consultazione perché da un po’ di tempo si sente depresso, senza forze fisiche, spento dal punto di vista mentale. Ha subito qualche anno fa un grave incidente automobilistico che ha richiesto lunghi mesi di riabilitazione e convalescenza, ma fortunatamente non ha comportato alcun danno fisico o funzionale. Fa un lavoro come grafico elettronico, che gli piace molto anche se lo svolge attualmente in una azienda con scarse prospettive di sviluppo. Ha una ragazza molto più giovane di lui, di cui è molto innamorato ma che considera “un po’ fuori di testa”. In famiglia si vive un menage un po’ noioso, ma tutto sommato accettabile, con un padre un po’ troppo materno (in cassa integrazione, per giunta…), una madre esausta ma non ancora rinunciataria, una sorella, coetanea della sua ragazza.
Prima dell’incidente, Paolo era un ragazzo esuberante, sempre fuori di casa, lavorava pur rimanendo fedele al “popolo della notte”: discoteche , viaggi e lunghi spostamenti in auto con gli amici, anche per seguire la squadra del Milan nelle sue trasferte e nei suoi trionfi (che ora sono finiti, per fortuna soprattutto per me che sono interista…).
Dopo l’incidente ha rapidamente ripreso la vita di prima, ma sostanzialmente non si è più sentito “quello di prima”. Le cure fisiche gli hanno lasciato una sorta di prostrazione e di astenia, si è accorto di non avvertire più il bisogno di continue scorribande e di estenuanti, pseudo-edonistiche, maratone notturne. In pratica “non si diverte più”, desidererebbe rimanere di più a casa da solo, ad ascoltare musica, a leggere, lavorare al computer o a non far niente di particolare; sono sorti conflitti con la sua ragazza che, ancora diciottenne, non ha finora esaurito le sue energie psicofisiche nelle discoteche di mezza Italia.
Quello che sorprende (me), è la convinzione di Paolo che il suo cambiamento sia senza dubbio patologico, dovuto forse alle conseguenze dell’incidente di qualche anno fa.
Nel corso dei colloqui Paolo comincia a prendere consapevolezza dei suoi nuovi bisogni, più congruenti alla fase di sviluppo. Il crollo narcisistico (il vissuto del Sé corporeo, dopo l’incidente automobilistico) è recuperato, reintegrato in una immagine di sé più vera e reale; l’astenia si trasforma in apatia, in esperienza di rilassamento, di riposo, e di sano “svaccamento“ schizoide. Dando ragione a Bertrand Russel ora anche l’ozio può essere elogiato!
Paolo trova la convizione e la possibilità di andare a vivere da solo, creandosi un proprio spazio interno e reale, rimarcando il distacco dai genitori, che continuano inconsapevolmente ad avere l’esigenza (propria) di proteggerlo e di accudirlo (esemplare il continuo propinargli ricostituenti e polivitaminici!). Ora riesce a meglio modulare il rapporto con la sua ragazza e con il mondo esterno, sapendo conciliare divertimenti e riposo, godendosi entrambe le cose. Sta cercando concretamente un nuovo sviluppo lavorativo, costituendo con un gruppo di amici una agenzia di servizi multimediali. Non riesce ancora a scrollarsi definitivamente quel senso di malessere depressivo, che qualche volta sfocia in nostalgia del suo antico vigore adolescenziale.
Quarto caso
Carla è una giovane donna di 27 anni. E’ venuta in terapia su indicazione di una sorella maggiore, che molti anni prima era stata in terapia da me. Soffriva da mesi di attacchi di panico e di angosce ipocondriache. Fino ad allora era stata una tranquilla e brava ragazza “senza infamia e senza lode”.
Terzogenita (oltre la sorella già in terapia da me, di qualche anno maggiore, aveva ancora un’altra sorella maggiore), aveva sofferto del “complesso della sorellina minore”, ma questo lo scopriremo dopo, nel corso della psicoterapia, non avendone allora minimamente coscienza. I genitori, che io avevo avuto modi di “incontrare“ nella psicoterapia della sorella, con l’indubbio vantaggio ora di rincontrarli in un nuovo viaggio, vivevano da sempre centrati sulla loro relazione, ovviamente altamente conflittuale, con tipiche modalità di reciproca collusione narcisistico-masochistica, obbligando (inconsapevolmente) i figli a far da coro allo svolgimento della loro tragedia.
Carla si era tenuta sempre in disparte, prudentemente lei pensava, in realtà terribilmente spaventata e sgomenta di fronte alle battaglie furibonde in famiglia, e alla mancanza di empatia e di attenzione nei suoi confronti. Dai familiari era percepita come schiva e menefreghista. Non le era mancato nulla, la famiglia era economicamente benestante, ma nessuno, neppure la sorella che conoscevo come persona sensibile, aveva minimamente pensato che Carla potesse aver bisogno di “qualcos’altro“. Così lei era cresciuta “in disparte”, quasi in silenzio.
A vent’anni, profittando delle possibilità economiche, se ne era andata di casa, costruendosi un suo nido tranquillo. Diplomata al liceo artistico, non aveva poi proseguito gli studi, quasi per inerzia e per sostanziale mancanza di fiducia in sé stessa. Lavorava insieme alla sorella (la stessa che l’aveva preceduta in terapia), in una azienda a struttura familiare, nella quale lei aveva ovviamente un ruolo secondario, di partner di “minoranza“, appunto.
Le cose erano andate apparentemente bene, fino all’insorgere dei primi sintomi ipocondriaci, poi sfociati in quelle manifestazioni acute di angoscia, da qualche tempo denominate “attacchi di panico”. Come in molte situazioni di questo tipo, non c’era stata nessuna causa diretta di questo esordio psicopatologico, ma solo l’approssimarsi di eventi che Carla da tempo pazientemente costruendo: l’acquisto di una nuova casa, vissuta come più stabile e definitiva e il consolidamento di un rapporto di coppia, con un giovane uomo, suo coetaneo, che sembrava condividere le sue stesse normali aspettative.
Perché l’avvicinarsi alla realizzazione di una meta, neppure tanto straordinaria, può comportare qualche volta il crollo di un apparente equilibrio? La mia risposta è che proprio la reali fruibilità della prossima conquista può fare emergere la paura di dover fare i conti con l’autenticità dei nostri desideri e delle nostre ambizioni, costringendoci ad uscire dall’illusione “sognante” e a confrontarci con ciò che abbiamo realmente costruito. La paura è che ogni conquista ci esponga a molte altre perdite, e che quello che avevamo fantasticato come “entusiasmante” può alla fine rivelarsi per quello che è, non corrispondente alle aspettative, deludente. Allora, cos’altro potrà riuscire a colmare quel vuoto che evidentemente è dentro di noi e che nessun oggetto “esterno” sarà mai in grado di compensare e colmare?
Tutta la lunga fase iniziale della psicoterapia di Carla è stata, come è facilmente intuibile, riempita dalle descrizioni dei suoi sintomi, dalle sue paure somatizzate, dal suo bisogno di essere curata dalla “malattia” e restituita alla sua “normale” vita di prima. Carla non immaginava minimamente che al di là del suo disagio c’era il suo vero sé, soffocato dall’apparente tranquilla vita provinciale, deprivato da ogni slancio vitale e dalla consapevolezza di poter desiderare, non solo nella sua vita di relazione (nel lavoro, con gli amici ) ma anche (e soprattutto) nei confronti della sua famiglia e del suo compagno.
Le sue paure d’altro canto la costringevano ad una ambivalente dipendenza proprio dalle figure affettive più significative. Veniva in terapia (due volte la settimana) accompagnata sempre da qualche famigliare, soprattutto il suo compagno, ma in precedenza dalla madre e, qualche volta, dalla sorella.
Ben presto però il muro di omertà, la rimozione della consapevolezza di sé, cominciarono a vacillare. Il picconatore all’inizio ero solamente io, forte della fiducia che mi ero (transferalmente e realmente) conquistata, facendo esperire a Carla, per la prima volta nella sua vita, la piacevole sensazione di esistere, di poter essere ascoltati e capiti, di poter “star bene in presenza di un’altra persona”, essendo di ciò consapevoli, grati e gratificati. Spesso Carla arrivava in seduta in preda all’angoscia, per tranquillizzarsi completamente in mia compagnia, potendo sorridere delle sue paure e delle ricostruzioni che cominciavano ad emergere della sua vita e delle figure, interne ed esterne, che l’animavano.
Emergevano così lentamente tutta la rabbia ed il risentimento verso il padre collerico e narcisista, verso una madre debole e compiacente, verso le sorelle che le avevano impedito di prendere parte da protagonista alla “recita familiare”. Naturalmente, il rapporto con la sorella che l’aveva preceduta in terapia veniva puntualmente analizzato in considerazione delle “interferenze transferali” che Carla temeva potessero esservi a causa del mio precedente rapporto con la sorella. (Dell’esperienza di psicoterapia con fratelli e sorelle potrò parlare più diffusamente in altra occasione, avendo avuto modo sperimentare più volte quello che per l’ortodossia psicoanalitica può essere considerato un errore tecnico, ma che per me ha rappresentato l’occasione per una interessante crescita professionale ed umana).
La precoce emancipazione di Carla dalla famiglia appariva ora in tutta la sua apparente contraddizione; man mano che prendeva coscienza del ruolo delle sue figure familiari nel suo sviluppo, Carla sembrava incapace di liberarsi ora realmente di loro. Soprattutto non voleva farlo: le sembrava di perdere per sempre la possibilità di una vendetta e di una “ richiesta di risarcimento”.
Carla ora è in un passaggio cruciale: immolare narcisisticamente e masochisticamente sé stessa alla ricerca di una riedizione del suo passato, riveduto e corretto, oppure abbandonare per sempre l’illusione onnipotente (finora non riconosciuta) di un riscatto infantile dei suoi bisogni d’amore, con i genitori e la “famiglia che non c’è”, per avviarsi a realizzare nel presente rinnovate modalità esperienziali e relazionali, recuperando da adulta tutte le potenzialità d’amore della persona, da quello verso sé stessi, tipico della posizione schizoide sana e creativa, all’amore simbiotico, simmetrico e paritario della relazione eterosessuale di coppia, all’amore fra persone che possono riconoscersi nelle reciproche differenze, nella gioia dell’appartenere a se stessi ed alla vita.
Conclusioni
Che cosa accomuna i casi che ho appena descritto? E’ individuabile, al di là degli specifici percorsi esperenziali e terapeutici di ogni singolo caso, un tema centrale, un compito evolutivo comune, coerente con le premesse del presente contributo, cioè con quello che ho delineato come il passaggio dal Sé alla persona? E se sì, come questo tema possa essere oggetto peculiare di intervento nella psicoterapia dei giovani adulti.
Cercherò di chiarire in che senso ritengo di dare una risposta positiva a questo interrogativo. Sarà utile anzitutto individuare le aree deficitarie che sembrano avvicinare, oltre ogni singolare differenza, Antonio a Paolo e Cinzia a Carla.
Tutte e quattro le situazioni cliniche che ho portato alla vostra attenzione presentano con maggiore o minore accentuazione uno specifico disturbo nelle funzioni di quelle parti del Sé che in qualche modo potremmo definire espressione di una personalità matura, parametri di un Sé stabile e coeso, e nella concezione del mio approccio teorico-clinico, prerequisiti del passaggio al funzionamento relazionale della persona. Questi aspetti sono così individuabili:
- la realizzazione di sé in una attività lavorativa che sia espressione della propria creatività e delle proprie attitudini personali;
- l’emergere di una gratificante relazione d’amore e la stabilizzazione funzionale del rapporto di coppia;
- un armonico rapporto con il proprio corpo, vissuto come parte integrante , positiva del Sé, non come appendice in perenne pericolo o in procinto di un continuo tradimento della mente;
- la consapevolezza delle proprie mete personali, dei propri bisogni e delle parti di sé proiettate sugli altri come aspettative, e il progressivo affrancamento da una continua ed estenuante dipendenza immatura da oggetti interni ed esterni.
Con questi elementi siamo in grado di compiere inferenze descrittive sui livelli di funzionamento del Sé ed orientare il nostro lavoro terapeutico, attraverso una nostra costante e consapevole modulazione della relazione con il paziente (regolando quello che Lopez, parafrasando Nietzsche, chiama il “pathos della distanza” ), ed un atteggiamento analitico mediato da una “calda” neutralità empatica. Peccato (io direi per fortuna!) che la persona non si lasci imbrigliare da griglie, parametri, regole o principi riduzionistici: quelli che ho appena citato, sono solo riferimenti descrittivi – didattici potremmo dire – che, sia pure orientati in senso fenomenologico, cioè rigorosamente legati alla pratica clinica, a nulla servono nella nostra relazione diretta, “fluttuante e pulsionale” con i nostri pazienti.
Certo che, anche solo dal punto di vista del disagio manifesto, la lettura delle specifiche sofferenze assuma nell’ambito dello schema delineato ben altro significato e profondità rispetto ai recenti orientamenti clinico-diagnostici delle cosiddette scienze obiettive. Che senso ha parlare di depressione o di attacchi di panico se non all’interno di un quadro di riferimento che includa la persona nella sua globalità e i suoi processi di funzionamento dinamico? (In una precedente comunicazione ho proposto di denominare con il termine suggestivo di “Sé pulsionale” questa istanza della persona, ad un tempo meta-psicologica e clinico-fenomenologica, quale concetto integrativo fra il modello della psicologia delle pulsioni o del conflitto, la psicoanalisi classica, ed il modello della psicologia del Sé o del deficit, che può comprendere la psicoanalisi delle relazioni d’oggetto, da Kohut a Balint, Fairbairn e Guntrip)
Vorrei tuttavia prima di concludere porre la vostra attenzione su un ulteriore aspetto che a me pare particolarmente pregnante proprio nell’esperienza terapeutica con i giovani adulti. Mi riferisco al compito evolutivo che caratterizza in modo determinante l’esito in una personalità matura; compito che comporta non poche difficoltà, visti il dolore e l’angoscia che l’accompagnano, di fronte ai quali i più si ritirano, accettando una vita “normale” fondamentalmente scippata dell’autenticità e della gioia, rinunciando – inconsapevolmente – al salto verso la genialità e la persona.
Viene il momento prima o poi, nello sviluppo psicologico dell’uomo e dunque anche nell’evoluzione di una psicoterapia analitica, in cui l’individuo sente come ineluttabile il cambiamento, la necessità di rinunciare ad una relazione con un oggetto d’amore o a comportamenti non più sostenibili. E’ un momento cruciale, dove sembrano prendersi le decisioni ultime, “dove si crea il proprio destino”, dove la scelta sembra essere tra la normalità, che implica “assoggettamento e rinuncia a se stessi e al giardino dell’Eden e che esige la morte della persona, in cambio della sopravvivenza e della socializzazione” (Lopez), e la fuga dalla realtà in tutte le sue potenzialità estensive, che va dalla delinquenza, alla ricerca di posizioni eccentriche econtestatrici, nella politica, nell’arte, nelle scienze, fino alla follia.
Vi è tuttavia una terza via oltre l’adattamento, la rinuncia o la ribellione ed è la via che porta al sorgere della persona. Questa via “esige la capacità di individuare la sottile discriminazione tra la dipendenza e la sottomissione….”. Questa è la via che sceglie colui che è capace di tollerare una elevata tensione emotiva, fiducioso di risolvere alla lunga armoniosamente la discrepanza fra mondo interno ed esterno, tra istanza di piacere ed esigenze di realtà.
Se la necessità della rinuncia è rappresentata dall’esigenza di superare la cronica collusione narcisismo-masochismo, la difficoltà della ricomposizione dell’individuo ad unità, a persona appunto, è rappresentata essenzialmente dall’idea che bisogna abbandonare e quindi perdere definitivamente parti di se stesso. Queste parti sono contenute nella nostra mente in genere come identificazioni parziali, come proiezioni e idealizzazioni di oggetti d’amore, oppure come oggetti-Sé idealizzati, secondo l’accezione kohutiana.
Il distacco da queste parti di sé, fondamentalmente legate alle nostre precoci esperienze di separazione e ai processi di individuazione riattivati nell’adolescenza, è necessario quando il prezzo da pagare per i nostri bisogni di approvazione, di sostegno e di amore, è il nostro vero Sé. La rinuncia, conscia ed inconscia, alle nostre aspirazioni impossibili, alle illusioni di libertà e di potere, alle illusioni di sicurezza, ai nostri sogni romantici può essere difficile e dolorosa perché non può essere barattata con altre certezze. Non c’è dolore forse più insopportabile dello sforzo per essere se stessi.
Nel lavoro di psicoterapia dei giovani adulti questo passaggio cruciale può essere ripreso e sostenuto dal tema della conclusione dell’analisi. La separazione dall’analista viene infatti temuta o ambivalentemente anticipata, rimandata, evitata, proprio perché contiene in sé transferalmente tutte quelle parti di sé che non si vogliono abbandonare.
“La grande paura determinante la difficoltà ad abbandonare la collusione narcisismo-masochismo equivale al rischio di perdere parti di sé stesso oppure, espressa in modo diverso, di lasciare che il presente si allontani e diventi passato, meglio di accettare che ciò che è già diventato emotivamente passato non rimanga come cancrena nel presente a impedire che questo presente si infuturi” ( Lopez).
A differenza di altre fasi della vita, la conclusione di una psicoterapia di un giovane, lo pone di fronte “fisiologicamente” a tutte le fondamentali responsabilità della vita (il rapporto con sé stesso, l’amore, la famiglia, il lavoro, la società ).
L’essenziale è che egli sia stato accompagnato da noi in un viaggio non troppo lungo nel quale la paura della perdita d’amore, il narcisismo ferito, l’amore e l’odio, il dolore e la gioia e tutta la gamma delle emozioni siano state vissute ed elaborate intensamente, permettendogli così il recupero delle sue più autentiche potenzialità e la prospettiva di una vita consapevolmente vissuta, in cui egli possa risuonare come Essere, unicità e totalità.
“Al principio della vita c’è noia.
Al tramonto della noia c’è il sogno.
Al limite del sogno c’è l’amore.
Al confine dell’amore c’è l’odio.
Al termine dell’odio c’è il disprezzo .
Alla fine del disprezzo c’è il dolore .
Al culmine di tutto c’è la gioia. “ ( D. Lopez)
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Circa l'autore:
Dr. Roberto Calia Psicologo Psicoterapeuta Milano