Sostenere

Aiuto e reciprocità

“Se vuoi costruire una nave non devi per prima cosa affaticarti a chiamare la gente a raccogliere la legna e a preparare gli attrezzi. Non distribuire i compiti, non organizzare il lavoro.
Risveglia prima negli uomini la nostalgia del mare lontano e sconfinato. Appena si sarà risvegliata in loro questa sete, si metteranno subito al lavoro per costruire la nave.” (A. de Saint-Exupery)

Quando si vuole aiutare qualcuno bisogna sostenerlo (sus-tenere, tenere in alto), incoraggiarlo a stare in piedi da solo, ma non sostituirsi a lui. E mentre lo si sostiene, è necessario stimolare la sua naturale tendenza all’autonomia.Come il tutore di un alberello, che serve a ripararlo dal vento e dalle intemperie fino a quando non diventa saldo e robusto.
Un eccesso di “maternage” distrugge ogni creatività, diventa assistenzialismo, inibisce la crescita personale e accentua il bisogno di dipendenza. Ecco perché aiutare qualcuno non è sempre semplice.
Richiede l’attenzione degli interessati (chi aiuta e chi riceve aiuto) a dare centralità alla dignità della persona, che ha le più solide fondamenta proprio nell’indipendenza e nell’autonomia.
Sembra invece più semplice per chi vuole aiutare (che è in posizione più favorevole) sostituirsi del tutto all’altro e fare tutto “al posto suo”, per “il bene dell’altro”.
Così facendo gratifica certamente il proprio altruismo (quando non il proprio narcisismo…) ed accresce la propria autostima. Ma rischia di innescare una risposta ambivalente dell’altro, che prima o poi rivendica la sua indipendenza e vuole riscattarsi dalla mortificazione subita per aver dovuto accettare di essere aiutato.
Su questa ambivalenza si spiega la mancanza di gratitudine di chi riceve aiuto e spesso “sputa” nel piatto di chi, in perfetta buona fede, gli ha offerto sostegno. Non deve mai esserci un rapporto top-down, fra chi è “superiore” e chi è “inferiore”.

L’asimmetria deve essere solo situazionale, riguardare cioè il momento della necessità, e non inficiare il senso di parità umana che è il fondamento stesso del “prendersi cura dell’altro”
La solidarietà vera è data dall’incontro di due persone di pari dignità, che potenzialmente possono arricchirsi vicendevolmente e che insieme tendono alla reciprocità della relazione.
La capacità di chiedere aiuto, quando è necessario, è un aspetto di una identità matura che non vanifica affatto il suo valore personale. Essere forti non significa dover sempre fare da soli, ma avere la forza di chiedere aiuto e provare a darne quando è richiesto. Non bisogna mai dare per scontata questa capacità nelle persone in stato di bisogno, ma stimolarla.
Le differenze fra l’assistenzialismo di vecchio stampo (ancora presente in molte modalità dei pubblici servizi) ed un vero Welfare alla Persona si rifanno a questa netta distinzione culturale.

“La civiltà ebbe inizio quando per la prima volta l’uomo scavò la terra e vi gettò un seme” (K. Gibran).
Riprendendo la saggezza dei vecchi proverbi, quindi non bisognerebbe regalare un albero, ma un seme. In ogni seme c’è tutta la potenza dell’albero futuro. Per far crescere l’albero bisogna piantare il seme e coltivare la pianta, con l’incertezza di vederla germogliare e crescere.
Solo puntando sulle potenzialità umane, operando per facilitare lo sviluppo delle caratteristiche di ogni singolo individuo, è possibile raccogliere i frutti di una Persona matura, che così può esplodere in azioni concrete tutta la sua creatività.

Il limite

C’è però un limite alla possibilità di aiutare gli altri.
“Nessuno può risolvere i problemi per quelli il cui problema è che non vogliono che si risolvano i loro problemi” (R. Bach).
Innanzitutto ci vuole la “competenza” di chi si propone ad aiutare un altra persona.
Se non hai in te stesso la capacità che vorresti attivare nell’altro, è difficile che tu riesca ad essere credibile agli occhi di chi dovrebbe essere aiutato.
Prima di prodigare consigli, bisognerebbe chiedersi: “Ho fatto veramente esperienza della stessa difficoltà che sta affrontando la persona che voglio aiutare?”, “Sarei io per primo capace di fare quello che chiedo di fare all’altro?”.
Di grandi consigli è pieno il mondo. Se fosse così facile mettere in pratica tutte le belle parole che ci propinano, il mondo sarebbe un paradiso da subito.
E poi (cosa di cui si tiene poco conto) siamo proprio sicuri che l’altro vuole essere aiutato? Ce l’ha chiesto veramente? Senza questo aspetto è difficile, per non dire impossibile, poter aiutare qualcuno, chiunque esso sia (parente, amico, paziente, ecc.).
Prendere coscienza di avere un problema, riconoscere che non siamo in grado di risolverlo e decidersi di chiedere aiuto, sono i primi passi necessari per innescare un cambiamento auspicato.
Eppure, in genere, facciamo fatica ad accettare che ci sono persone che non vogliono essere “salvate”. Temiamo di identificarci con esse.
Rifiutiamo l’idea che non possano essere aiutate (almeno nelle attuali condizioni, magari potranno cambiare in altre circostanze) o che siano “condannate” per sempre.

Lasciare invece queste persone al loro destino è l’estrema possibilità che gli viene data per poter decidere di fare qualcosa.
Nella vita, come in terapia, viene prima o poi inesorabilmente il momento di lasciare l’altro al proprio destino.
Dopo mesi o anni di paziente ascolto, comprensione, tentativi di scardinare i mortiferi tarli mentali, se nulla è servito ad aiutare l’altro ad uscire dalle acque stagnanti in cui si dimena inutilmente, è ora che lo si privi del vantaggio secondario di una morbida spalla su cui piangere.
Contrariamente a quanto si possa temere, solo così si puo’ sperare in un suo movimento vitale verso la speranza e una nuova prospettiva. Di fronte al baratro, prima della caduta fatale, forse prenderà coscienza della sua condizione e si deciderà a fare qualcosa, a cominciare dall’ammettere di aver bisogno di aiuto.
È la precondizione (necessaria anche se non sufficiente) per l’inizio della risalita.
Se ciò non avviene, continuando a prestare un inutile “ascolto assistenziale”, il rischio è di perire emotivamente insieme negli acquitrini del lamento.
Una morte annunciata per annegamento in una pozzanghera… di lacrime!

“Non mettetemi accanto a chi si lamenta senza mai alzare lo sguardo, a chi non sa dire grazie, a chi non sa più accorgersi di un tramonto.
Chiudo gli occhi, mi scosto di un passo. Sono altro, sono altrove” (A. Merini).
Nel rispetto della dignità e della autonomia di ogni essere umano, il vero sostegno si esprime solo nella reciprocità e nella parità, valorizzando lungo il continuum trasformativo dell’Amore, come Àgape e non come Eros, il polo positivo della dedizione e della cura.

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Circa l'autore:

Dr. Roberto Calia Psicologo Psicoterapeuta Milano
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