L’anima delle metropoli
Il tema dell’umanizzazione del territorio è noto ma raramente si è avvalso di un contributo psicologico professionale. Io di mestiere faccio lo psicologo, opero da oltre 30 anni nei servizi sociali e sanitari, mi occupo di problemi legati al disagio e alla sofferenza psichica e sociale delle persone, utilizzando gli strumenti delle discipline umanistiche. È quindi da questo vertice di lettura che darò il mio contributo; cercherò di interpretare il punto di vista delle persone, in chiave esclusivamente soggettiva, con la speranza di portare qualche elemento di utilità al tema, “pezzi” insomma per la ricomposizione di un puzzle assai più complesso.
La convinzione di fondo è che i problemi politici della progettazione e gestione del territorio non si possano affrontare senza collaborazione tra gruppi di portatori di interesse che tengano al centro del proprio operare la relazione tra le persone e tra i gruppi sociali e l’ambiente fisico. L’apertura e il confronto interdisciplinare sono necessari allo sviluppo di una linea integrata di lavoro socio-ambientale, che vede coinvolte varie competenze professionali. Scienze naturali e scienze umane quindi al servizio del cittadino, inteso come portatore di interessi compositi (materiali, psichici e sociali).
Il rapporto fra psicologia e politica è stato da sempre implicitamente riconosciuto ma di fatto raramente è diventato esplicito oggetto di interesse da parte degli addetti ai lavori. Anche se non mancano esperienze di collaborazione interdisciplinare in cui gli psicologi hanno fornito il proprio contributo conoscitivo e metodologico, l’utilizzo della psicologia quale strumento “scientifico”, diretto ed orientato, da parte del mondo politico continua a rappresentare una rarità o tutt’al più un utilizzo sporadico.
Alla luce dei grandi processi di trasformazione in atto nel mondo occidentale e degli sviluppi intervenuti nella cultura dei popoli, il contributo sistematico delle scienze umane appare quanto mai necessario ed attuale. La sfida per ottenere una migliore “qualità di vita” nella società d’oggi e in quella futura è ormai una necessità diffusa non solo negli ambienti economici, sociali e nel dibattito scientifico, ma anche e soprattutto nell’azione e nei programmi politici.
Se la politica nella sua accezione più alta è “orientamento ai bisogni” e strategia di intervento verso prospettive etiche elevate, essa dovrebbe costituirsi come istanza interpretativa centrata sul soggetto, come occasione per costruire istituzioni, strutture e servizi “a misura d’uomo”, che contribuiscano allo sviluppo della persona e delle relazioni fra le persone. Al di là del pragmatismo attuale, che sembra essersi sostituito alla caduta delle ideologie, l’approccio psicologico alla politica può servire a riaffermare la centralità del vero soggetto della politica, che è la persona stessa e non il politico e le istituzioni.
La politica della soggettività trova quindi fondamento nel superamento (apparentemente paradossale) di una visione individualistica, di una concezione del singolo contrapposto al “sociale”, sostituendola con una visione della persona, intesa come “meta maturativa dell’individuo”.
Con il termine “persona” intendiamo il passaggio dall’individuo ad una superiore posizione dello sviluppo psichico e sociale, un individuo non più “frantumato e disintegrato” ma unità di corpo-mente e spirito, “ricomposizione e ristrutturazione armonica” di tutte le istanze fondamentali dello sviluppo umano. L’individuo maturo, divenuto persona, non è concepito come semplice integrazione di parti di personalità o adattamento alla realtà esterna, ma come “status”, mai completamento definito, in continuo rinnovamento e arricchimento.
“….. E non sarà che a questo mondo ci sono troppi individui e troppo poche persone?……”, affermava pensosa Mafalda, celebre personaggio dei fumetti di Quino. Io penso sia proprio così e penso anche che possa essere maturo il tempo per facilitare questo passaggio, questo sviluppo, racchiuso descrittivamente nel chiasma politica del soggetto – soggetto della politica.
Una politica che abbia consapevolezza profonda delle basi soggettive e delle sue enormi potenzialità creative, rappresentate dalle risorse psicologiche, per propria natura “inesauribili”, contrapposte dialetticamente a quelle economiche, soggette invece inevitabilmente a “penuria”.
È così utopica una centratura dell’azione politica sul concetto di benessere? Certo, questo implica il passaggio dall’idea pessimistica di “scarsità” delle risorse verso quella di “abbondanza”, un rafforzamento ottimistico della soggettività e della sua importanza (la persona), ed un corrispettivo ridimensionamento dell’oggettività, del sovrastrutturale e soprattutto dell’economia, con la sua pervadenza e la sua tirannica egemonia. Legittimare il fattore soggettivo nel discorso politico vuol dire rendere “più politico il personale…” e “più personale il politico…”, può significare far ritrovare alle persone un nuovo positivo “senso di appartenenza”, contribuendo ad una nuova etica della società fondata sulla condivisione di “senso”.
Come psicoterapeuta assisto oggi ad un disagio individuale crescente, che si cronicizza e diviene sempre più collettivo. La domanda di servizi supera di gran lunga la capacità di risposta delle nostre istituzioni. Nei nostri servizi siamo quotidianamente chiamati ad accogliere e trattare la sofferenza psichica dei bambini, dei giovani e delle famiglie che ci consultano. Ma anche la scuola, il mondo del lavoro, le autorità giudiziarie – tutte istituzioni in modi diversi ugualmente in crisi – indirizzano ai nostri servizi ogni giorno centinaia di “minori”. I servizi socio-sanitari sono così diventati un po’ alla volta una sorta di imbuto in cui si riversano gli esiti di quell’ “epoca delle passioni tristi” (Benasayag), che sembra caratterizzare la nostra contemporaneità. Per questo ritengo che la risposta a tale disagio non possa essere (o non solo) sul piano individuale, ma su quello collettivo.
La “terapia della persona” deve diventare “terapia del mondo” e l’ambito di intervento non può quindi essere solo psicologico, ma soprattutto politico. Da questo punto di vista la frattura fra pubblico e privato, fra politico e personale, fra collettivo e individuale non ha più fondamento, e questo ci permette di entrare più direttamente nel merito del dibattito odierno.
Se dunque fra mondo interno e mondo esterno non c’è frattura, con il superamento della separazione fra soggettività e socialità, quest’ultima intesa come “dimensione plurale”, declinazione collettiva della persona, nel passaggio dal Sé al Noi, attraverso la coppia, i gruppi, la comunità, allora quando parliamo di progettazione del territorio, dell’ambiente e degli spazi di vita, parliamo anche dei bisogni, dei desideri e delle aspettative delle persone che in quei “luoghi” transitano la loro esistenza, cercando in essi la piena realizzazione delle proprie aspirazioni.
“Il modo in cui immaginiamo le nostre città, il modo in cui progettiamo i loro scopi, i loro valori e aumentiamo la loro bellezza, definisce il Sé di ciascuna persona di quelle città, perché la città è l’esibizione tangibile dell’anima comunitaria” (J. Hillman)
Le persone si realizzano, trovano sé stesse entrando in mezzo agli altri, nelle città – che è il significato alla radice della parola polis, “poli”, “molti”, il modo di migliorarci è quello di migliorare la nostra città e l’ambiente in cui viviamo.
Una delle convinzioni più radicate è cha la “psiche” prediliga la natura, stia bene all’aperto, e che quindi nella città l’uomo soffra e si ammali. Questa visione “bucolica”, pseudo-ecologica, a me non pare accettabile, perché pone la città e l’anima in campi opposti, con la conseguenza estrema di un bisogno irrefrenabile di fuggire dalla città. Così avremo:
…. Città senz’anima e anime senza città, anime incivili, animali semplici, romanticizzati, barbari che abbandonano la città per una cella da eremita o una sitemazione da hippy nella foresta vergine. Un’ecologia che recuperi l’anima non ha luogo soltanto nella Sierra Nevada, lontano da tutto: noi recuperiamo l’anima quando recuperiamo la città nei nostri singoli cuori; il coraggio, l’immaginazione e l’amore che portiamo per la civiltà” (J. Hillman)
Hillman non è un pensatore astratto, un filosofo senza “fondamenta”, uno strizzacervelli…., è uno psicoanalista che ha saputo fornire un contributo concreto alla fondazione di una autentica “politica della bellezza”, mostrando il legame che esiste fra la dimensione simbolica e la città. Un approfondimento ci porterebbe lontano, limitiamoci a riportare a grandi linee solo alcune idee ed immagini esemplificative.
La prima di tali idee è quella della riflessione: la riflessione viene trasfusa nella città sotto forma di specchi d’acqua, laghetti, viali, zone d’ombra, luoghi riparati, dove la riflessione ha luogo.
La seconda idea è quella di profondità: c’è bisogno nelle nostre città di livelli differenti, che possono essere sperimentati in modi diversi, come livelli di luce o gradazioni di luci.
Una terza idea ha a che fare con la memoria emozionale: la città deve conservare la memoria della propria storia, è una storia che deve parlare di sé via via che percorriamo le sue strade, i suoi parchi, le sue piazze; deve risuonare di echi profondi che provengono dal passato, le cose che hanno contato per noi, le cose che hanno contato per la comunità. Una città senza radici (tradizioni) è come una persona affetta da grave amnesia, esiste senza più identità.
Ancora, le città hanno bisogno di immagini e di simboli : una città che voglia avere cultura deve essere animata dalle immagini, senza immagini, l’uomo tende a smarrirsi.
L’ultima di queste idee di anima riflessa in una città non può che richiamare ai rapporti umani : una città ha bisogno di luoghi di incontro, luoghi dove le persone possono guardarsi reciprocamente, “ad altezza d’occhi”, dove si può chiacchierare e non solo comunicare. Un incontro che non deve essere soltanto un “incontro pubblico” ma anche un “incontro in pubblico”. Hillman così ammonisce:
“Una città dello spirito grandioso non basta. Non bastano palazzi e monumenti, musei, cattedrali e auditorium che tendono verso il cielo. Una città che trascura il benessere dell’anima, obbliga l’anima a ricercare il proprio benessere in modo degradante e materiale, all’ombra di quelle stesse torri splendenti. Il benessere, un fenomeno essenzialmente cittadino, non è soltanto un problema economico e sociale: è prevalentemente un problema psicologico. L’anima che viene trascurata – sia nella vita personale che in quella comunitaria – si trasforma in bambino rabbioso. Aggredisce la città che l’ha depersonalizzata, con una rabbia depersonalizzata, una violenza contro quegli stessi oggetti – le facciate dei negozi, i monumenti nei parchi, gli edifici pubblici – che rappresentano l’uniforme assenza di anima… La frustazione di quest’anima distrugge come un barbaro, ciò che non può comprendere, le strutture che rappresentano le realizzazioni della mente, il potere della volontà e lo splendore dello spirito, ma che non riflettono i bisogni dell’anima. Per la nostra salute psichica, e per il benessere delle nostre città, dobbiamo continuare a cercare dei modi per far posto in esse all’anima”.
Nella realtà delle nostra città, la sensazione diffusa oggi è quella di uno scollamento, un crescente senso di assenza, indifferenza, sfiducia da parte dei cittadini rispetto alla “città”. C’è una sorta di legame debole fra soggetti e spazio urbano, tra esperienze di fruizione e variabile territorio. Difetta fortemente il senso di appartenenza al fenomeno città e al territorio nella sua accezione più ampia.
Sul piano sociologico, il dibattito sembra polarizzato su due ipotesi prevalenti: quella più propensa alla globalizzazione, la quale sostiene che l’unica chiave di lettura in questa situazione è quella di concepire il territorio come un indistinto spazio a diversi livelli di urbanizzazione; e quella più orientata al localismo, il quale sostiene al contrario che al vecchio concetto di urbanità debba subentrare la possibilità di scomposizione dell’indifferenziato urbano in specifiche sub-realta socio-spaziali.
Di fronte alla vastità dei mutamenti con i quali siamo costretti a confrontarci, diventa ingenuo per chiunque pensare di trovare risposte certe ed univoche. Quel che appare certo è che bisogna evitare il proliferare di quelli che Augè definisce non-luoghi, immagine di un modello emergente di urbanità che poco spazio lascia alla soggettività, secondo quello che abbiamo tentato di delineare.
“Se un luogo può definirsi come identitario, relazionale, storico, uno spazio che non può definirsi identitario, né relazionale, né storico, definirà un nonluogo…….. Un mondo in cui si moltiplicano, con modalità lussuose o inumane, i punti di transito e le occupazioni provvisorie, in cui si sviluppa una fitta rete di mezzi di trasporto, che sono anche mezzi abitati, in cui grandi magazzini, distributori automatici e carte di credito riannodano i gesti di un commercio “muto”, un mondo promesso alla individualità solitaria, al passaggio, al provvisorio e all’effimero, propone all’antropologo (ma anche a tutti gli altri) un oggetto nuovo del quale conviene misurare le dimensioni inedite prima di chiedersi di quale sguardo sia passibile” (M. Augé)
L’importanza della relazione individuo-ambiente (intendendo per ambiente “ciò che sta intorno”, il contesto fisico e sociale in cui si sviluppano la personalità ed il comportamento umano), è stata riconosciuta da molti punti di vista. La psicoanalisi dà un ruolo centrale all’ambiente nello sviluppo delle prime relazioni affettive del bambino. Winnicott vede una profonda analogia tra gli aspetti di sostegno fisico forniti dall’ambiente e quelli di protezione psicologica e di facilitazione dello sviluppo forniti dalla figura materna. All’inizio del suo processo evolutivo il bambino è “un abitante nel corpo della madre e poi nelle sue braccia e infine nella casa dei genitori”. Lo sviluppo dell’individuo dalla dipendenza assoluta all’indipendenza è sempre strettamente connesso al suo abitare in un ambiente che, se favorevole, rende possibile la sua maturazione.
Ambiente umano (relazioni) e ambiente non umano (fisico) mantengono una profonda analogia anche per la vita affettiva degli adulti, fino a dare vita a quello che viene definito “attaccamento ai luoghi”, che ha nelle diverse fasi della vita, radici e modalità di espressione simili a quelle dell’attaccamento alle persone. Questi intensi legami affettivi, che danno una coloritura positiva o negativa all’attivazione emozionale suscitata in noi dai luoghi, non si limitano alle case, ma si estendono a quartieri, città, regioni, stati. Alla radice di questo attaccamento ai luoghi ci sarebbe sempre una forma di dipendenza dall’ambiente, che diminuisce man mano che il raggio d’azione delle persone si fa più ampio. La dipendenza dall’ambiente sembra quindi negativamente correalta alla “competenza ambientale”, cioè alla capacità di affrontare con adeguatezza i problemi spaziali, sociali, lavorativi, caratteristici delle diverse fasi di età. Con l’età avanzata, per intenderci, la competenza ambientale diminuisce e subentra un ritiro sociale, accompagnato dall’aumento della dipendenza ambientale del soggetto; con l’avanzare dell’età e la diminuzione della competenza ambientale, anche la dipendenza affettiva dai luoghi aumenta, creando grossi problemi nella separazione dai luoghi di vita.
Un fenomeno analogo si riscontra anche nelle persone appartenenti a gruppi più svantaggiati socialmente (per reddito, istruzione, ecc.), che manifestano in genere una maggiore intensità di attaccamento ai luoghi e di sofferenza psichica nel doversene allontanare. E’ come se le circostanze della vita in cui siamo più deboli fossero quelle che ci rendono più attaccati difensivamente alla nostra casa e alla nostra città.
Una parte più o meno grande della nostra identità personale è costituita dai sentimenti di attaccamento ai luoghi. E’ bene tenere a mente questo aspetto quando si prospettano cambiamenti significativi del nostro “territorio” di vita. Un aspetto molto importante in tal senso è rappresentato dalla comunicazione e dalle strategie messe in campo per favorire la condivisione e la partecipazione al cambiamento. Quando per vari motivi avvertiamo discrepanze ed incongruenze fra l’immagine di sé (self identity) e quella del uogo in cui viviamo, il nostro sforzo sarà teso a modificare l’ambiente secondo un’immagine congruente con la nostra rappresentazione interna dell’ambiente ideale (place identity). Se non ci riusciamo, inevitabilmente diminuirà il nostro attaccamento al luogo che ci crea disagio e che diviene così ostile ed inospitale.
In questo approccio al territorio, appare pertinente inserire qualche accenno al problema dei cittadini migranti, degli “stranieri”. Abbiamo parlato di identità dei luoghi, di storia, di “anima dei luoghi”, quindi sembrerebbe che gli stranieri non c’entrino, siano appunto estranei, possano disturbare questa ricostruzione di senso e di appartenenza alla città, che dovrebbe così essere solo degli autoctoni, dei nativi del luogo.
In realtà, la città per sua natura è nata proprio per “agglomerare” persone, gruppi, per favorire incontri (ma anche “scontri”), apertura o intolleranza, inclusioni ed esclusioni, difesa del territorio, invasioni, ecc. La città è sempre stata popolata da stranieri. L’identità si rafforza proprio nella sua contrapposizione dialettica con l’altro, che è disidentità di sé.
Il problema è ricostruire fra tutti gli abitanti della città, stranieri in qualche modo l’uno agli altri (avete idea tutti di cosa sia vivere in un condominio!…….), una “base sicura”, una comune sicurezza di base, che si costituisce come “bene comune” e che io penso si possa trovare solo alla radice della nostra natura umana, al di là del colore, delle classi, delle razze, delle religioni.
Questa base comune è rappresentata dalle condizioni essenziali di sviluppo degli esseri umani (sia sul piano ontologico che filogenetico), che sono: la tutela fisica ed affettiva della nascita e dello sviluppo infantile, il nutrimento non solo biologico ma anche affettivo, il presidio e la protezione della relazione precoce mamma-bambino, il sostegno delle funzioni genitoriali, i rapporti parentali, la facilitazione delle life skills, attraverso la promozione dell’amore di sé, del rispetto degli altri, del senso di identità, delle competenze relazionali, del riconoscimento di reciprocità.
Possiamo denominare questi elementi “competenze affettive comuni ad ogni uomo” (Fornari), ritrovandovi forse una rinnovata fiducia per quei valori universali da sempre richiamati, ma mai sufficientemente praticati.
Bisognerà rafforzare con ogni azione (che non può non essere che “politica”) questo “bene comune” e contrastare con fermezza e senza false ipocrisie e fraintendimenti pseudo-solidaristici qualunque comportamento, individuale o collettivo, che possa compromettere questo humus culturale in cui tutti i cittadini possano coltivare in-sieme la propria vita.
È qui forse la base per una autentica integrazione: il mero assistenzialismo, spacciato per solidarietà ed accoglienza, perpetua l’asimmetria e la diversità fra le persone. Il problema degli stranieri nella città, che così riproposto diviene tout court il problema della convivenza sociale, si risolve nella riscoperta della com-passione e del prendersi cura, che è il fondamento peculiare della comunità umana, a differenza del branco animale. L’ “anima solidale” viene così recuperata e riaffermata.
L’apporto delle discipline umanistiche può rappresentare oggi una opportunità “politica” in più per favorire la promozione della qualità di vita. Più che rincorrere modelli riparativi del disagio individuale, anche l’O.M.S. spinge per mettere in atto politiche sociali ed ambientali in grado di facilitare le migliori condizioni di vita, andando oltre le consuete strategie di prevenzione delle patologie, cercando di incidere direttamanete nella promozione del benessere. In quest’ottica, non vi è alcun dubbio che la qualità di vita sia associata profondamente alla qualità delle interazioni con l’ambiente sociale in cui l’individuo agisce e alla qualità dell’ambiente fisico in cui vive.
Una politica per la promozione del benessere e della salute dovrà essere tesa a favorire contemporaneamente nella comunità, nei gruppi e nelle persone, maggiori opportunità, sostegno sociale, percezione di sicurezza e controllo, motivazione al cambiamento, potenziamento delle competenze e delle capacità personali e relazionali.
Uno strumento empirico di intervento che ha dimostrato efficacia nel perseguire questi obiettivi esiste ed è già stato ampiamente utilizzato negli interventi di comunità, in ambito internazionale ed nel nostro paese: si tratta della metodologia che si rifà al costrutto di empowerment.
La parola empowerment deriva dal verbo to empower che significa “favorire l’acquisizione di potere; rendere in grado di”. L’empowerment può essere descritto in breve come una strategia o un processo che permette alle persone, ai gruppi e alle comunità di accrescere le proprie capacità di controllare attivamente la propria vita. Secondo questo costrutto, vi è quindi una correlazione fra condizione di benessere e “senso di potere”, un potere non di oppressione ma di trasformazione, di attivazione delle proprie e delle altrui potenzialità. Il tipo di potere cui fa riferimento l’empowerment si declina nel sentimento di controllo e nel desiderio di sviluppo ed emancipazione, crea reciprocità, mette in causa le competenze attive dei soggetti, rendendoli in grado di far fronte ai cambiamenti o di produrre loro stessi le condizioni per il cambiamento. L’empowerment appare dunque come strumento metodologico effettivamente fruibile per restituire alla politica la sua vocazione originaria, ovvero quella di promuovere nelle persone la possibilità e le motivazioni per partecipare alla gestione della cosa pubblica.
Fra i tanti “piani” che si mettono in campo nella programmazione pubblica delle nostre politiche locali, avanzo tre modeste proposte progettuali che mi piacerebbe vedere sviluppate nelle nostre metropoli del prossimo futuro.
La prima proposta riguarda un rinnovato impegno per una città dei bambini. Nel progettare nel presente il territorio urbano, diventa quanto mai indifferibile ripensare la città utilizzando il bambino come “parametro”.
Non si tratta solo di realizzare iniziative, opportunità, strutture nuove per i bambini o di migliorare i servizi per l’infanzia (cose che normalmente le amministrazioni comunali dovrebbero fare già); si tratta invece di abbassare l’ottica dell’amministrazione “fino all’altezza del bambino”, il bambino come rappresentante e metafora di tutte le diversità (gli anziani, i disabili, i drop out, gli stranieri, ecc.). Una città adatta per i bambini sarà una città più adatta per tutti. Si tratta allora di pensare ad una città più leggera, più semplice, nella quale tutti i cittadini contino di più, senza perdere nessuno per strada….
Il bambino è il garante naturale dello sviluppo sostenibile: lui deve diventare grande, capace di risolvere problemi e non potrà mai farlo se non gli garantiremo autonomia, possibilità di rischio e di crescita, possibilità di relazioni spontanee e di gioco. Ripensare ad una città dei bambini vuol dire preparare un futuro nel quale ci sia voglia e possibilità di pensare al benessere e alla qualità di vita. Un futuro nel quale i giovani tornino ad avere il desiderio di mettere al mondo dei bambini. La città dei bambini non è un progetto per i bambini, ma per la città.
“Se non diventerete come i bambini non entrerete nel regno dei cieli…..” (Vangelo Matteo 18, 3)
Dice Gesù che occorre diventare, non tornare ad essere, come bambini. Occorre diventare bambini per essere degni del regno dei cieli. Non un invito a tornare indietro, ma un progetto utopistico ad andare avanti.
La seconda proposta riguarda la possibilità di progettare il territorio urbano in un’ottica di learning city, in analogia ai diversi programmi sviluppati in molti contesti europei.
“L’apprendimento continuo non è più solo un aspetto dell’istruzione e della formazione: deve diventare il principio-guida per la preparazione e la partecipazione lungo l’intero spettro dei contesti di apprendimento. Il prossimo decennio deve vedere l’implementazione di questa viosione. Tutti coloro che vivono in Europa, senza nessuna eccezione, dovrebbero avere uguali opportunità di rispondere alle domande di cambiamento economico e sociale e di partecipare attivamente alla costruzione del futuro dell’Europa.” (Commissione Europea – Lisbona, 2000)
Lo sviluppo di una società dipende dalla nostra capacità di adattamento alle nuove circostanze e alle nuove realta, in ultima analisi quindi dalle capacità di apprendimento. Una learning city riconosce e comprende il ruolo fondamentale dell’apprendimento per la prosperità, la stabilità sociale e la realizzazione personale; mobilita perciò le sue risorse umane, fisiche e finanziarie per favorire lo sviluppo del potenziale umano di tutti i suoi abitanti. Mette cioè a disposizione dei suoi cittadini un quadro di riferimento strutturale e mentale che consenta di capire il cambiamento in atto e di reagrivi positivamente. Una learning city va al di là del proprio compito istituzionale di fornire istruzione e formazione a coloro che la richiedono, ma crea un ambiente partecipativo, culturalmente consapevole ed economicamente fruibile attraverso la fornitura e la promozione attiva di opportunità di apprendimento in grado di sviluppare le potenzialità di tutti.
Si tratta di una vera e propria strategia politica per governare il cambiamento; i vantaggi risultano evidenti perché una popolazione orientata all’apprendimento continuo diventa più creativa, attiva e partecipativa; attraverso una impostazione bottom-up delle stretegie culturali si incoraggia la realizzazione personale, tutti possono in qualche modo contribuire ad eleaborare il passato ed il presente per creare il futuro, costruito attraverso il consenso e la condivisione.
La terza proposta è quella della responsabilità sociale del territorio (RST). Si tratta di una strategia metodologica, una evoluzione, sviluppata a partire dalla più nota e collaudata responsabilità sociale d’impresa (RSI). E’ una proposta ricca di ambizioni: ipotizzare una relazione effettiva, costruttiva e creativa tra gli attori economici, sociali ed istituzionali della città, in grado di costruire un piano di sviluppo nell’ottica della sostenibilità e della condivisione. Il ruolo dell’amministrazione in questo persorso è di proporsi come facilitatore di questo complicato processo, guidarne le relazioni per favorire la costruzione di un concreto piano di sviluppo sostenibile, fatto di fasi, obiettivi ed azioni condivise (da qui, evidentemente, il rapporto con le proproste della città dei bambini e della learning city). Le buone pratiche possono trasformare queste ambizioni in azioni percorribili. Il vantaggio consiste essenzialmente nel passaggio da una concezione in cui gli attori economici sviluppano reti di relazioni con i propri stakeholder, ad una visione d’insieme in cui tutti i soggetti sociali concepiscono un “interesse comune” (multi-stakeholder).
Per chiarire il presupposto “filosofico” che può spiegare cosa significhi responsabilità sociale coniugata a livello territoriale, e che può rendere possibili processi di questa portata, permettetemi di utilizzare un’immagine metaforica non mia.
“La scena richiama un’immagine evangelica: una barca di pescatori in mezzo al mare. La rete è già stata lanciata ed ha fatto un buon “raccolto”: un intero branco di pesci sta per essere issato a bordo della barca.
Il parapiglia all’interno della rete è alto, ma ahimé inconcludente. I pesci si muovono affannosamente in cerca di una via di fuga, ma questa non c’è!……. Ogni pesce pesa di essere in grado, da solo, di trovare la via d’uscita; per questo lo vediamo intento a scodinzolare in modo affannoso dentro la rete, senza accorgersi di dare anche intralcio a chi gli sta accanto, anch’esso intento a dimenarsi senza speranza…… La spinta di uno annulla la spinta dell’altro e la rete continua a salire lentamente verso la barca.
Ma può esserci un’altra modalità per stare insieme dentro la rete, una modalità che richiede sicuramente uno sforzo maggiore di relazione e condivisione e che sembra l’unica speranza per uscire dall’inghippo in cui sono finiti: possiamo infatti immaginare che i pesci possano organizzarsi e riuscire a spingere tutti insieme verso un punto, verso lo stesso punto… pensate che scena!
Pensate allora di vedere la rete che progressivamente viene tesa verso il fondo del mare, finchè non riesce più a tenere, si spezza, lascia liberi tutti i pesci che vivranno ancora a lungo……” (F. Peraro, “Responsabilità sociale del territorio”, F. Angeli)
La metafora mostra collegamenti anche troppo scontati con il contesto economico, sociale, globale di oggi che vede appunto gli attori sociali fortemente legati l’un l’altro in una interdipendenza reciproca che ci porta ad essere accomunati in un unico destino. Riporto a proposito un passaggio di Zygmunt Baumann (Voglia di Comunità):
“Nel nostro mondo sempre più globalizzato viviamo in una condizione di interdipendenza e, di conseguenza, nessuno di noi può essere pienamente padrone del proprio destino. Tutti noi abbiamo la necessità di acquisire il controllo sulle condizioni nelle quali affrontiamo le sfide della vita, ma per la gran parte di noi tale controllo può essere ottenuto solo collettivamente. Se mai può esistere una comunità, può essere una comunità intessuta di comune e reciproco interesse; una comunità responsabile, volta a garantire il pari diritto di essere considerati esseri umani e le pari condizioni di agire in base a tale diritto”.
La responsabilità sociale del territorio diventa così una nuova opportunità, uno strumento strategico per una direzione di senso, fondata sulla riscoperta di valori condivisi che gli attori istituzionali, economici e sociali sanno consolidare grazie a solide reti di relazioni fra gli stessi, e concretizzare in percorsi di sviluppo della comunità territoriale, che guardano in primis al bene della persona e del suo ambiente di vita.
La gestione di tale sviluppo dovrà sostanzialmente affrontare un doppio paradosso: il bisogno di trovare un equilibrio fra benessere e qualità di vita attuale, solidale e giusto per la propria generazione, senza ipotecare il futuro per le generazioni future. Insomma un giusto mix fra le variabili oggettive e quelle soggettive.
Le mie conclusioni tornano così circolarmente all’inizio: dalla centralità ed unicità delle persone, quali attori dello sviluppo locale, deriva l’unicità del progetto di sviluppo delle città. E’ la persona la prima, irrinunciabile, risorsa di ogni progetto di sviluppo. Sono le persone che danno valore al territorio, in quanto la persona umana con la sua presenza è l’unica essenziale motivazione per attivare idee, progetti, risorse economiche.
Ci può essere reale sviluppo solo dove le persone possono esprimersi ed essere messe nelle condizioni di vivere, lavorare, creare relazioni e pensare fiduciosamente al futuro.
“Sono uno psicologo, non un politico………: cos’altro vi aspettavate?!?”
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Circa l'autore:
Dr. Roberto Calia Psicologo Psicoterapeuta Milano