Morte viva e vita morta: oltre la mortificazione dell’esistenza
“Morire non è nulla; non vivere è spaventoso.”
(V. Hugo)
Al di là della sua valenza religiosa, il periodo di quaresima fino a Pasqua, che culmina con la resurrezione di Cristo, può servire simbolicamente a ricordarci da dove veniamo e dove siamo diretti e a farci riflettere sulla nostra condizione esistenziale, sul senso della vita e della morte.
Molte persone non si interrogano affatto su questo, ma vivono piuttosto un costante stato d’apprensione verso la propria salute.
Avvertono perennemente sintomi e disagi del corpo, con la paura di poter essere seriamente ammalati e, in ultima analisi, di dover morire.
Sono così morbosamente attaccati alla vita che finiscono paradossalmente per viverla da malati.
“Noi siamo paurosamente preoccupati della nostra morte, spesso tanto da dimenticare il vero scopo della nostra vita” (B. Weiss).
Per l’ansia di ammalarsi, di fatto “mortificano” e condizionano pesantemente la propria esistenza.
Per paura di morire, rischiano di morire psicologicamente di paura.
Il problema non è la morte, che è data per tutti e che non è negoziabile. Il problema è la vita, ciò che realmente riusciamo a farne nel tempo che ci è dato di poterne partecipare.
La vita terrena è in ultima analisi l’intervallo fra la nascita e la morte. Perché buttare via questo intervallo? Perché non onorare fino in fondo questo passaggio, questo spazio/tempo che ci è donato?
“Il principio e la fine: nel mezzo la meraviglia della vita” (M. Trevisan).
Tutto dipende dunque da come usiamo questo intervallo.
Parlo ovviamente di “questa” vita, non del destino altro che ci attende in una “altra vita”, in ogni caso: che sia la gloria, come credono filosofi e religiosi, oppure il nulla, come dicono i nichilisti. (*)
Molti non vogliono nemmeno sentire questa semplice verità, ossia che la vita e la morte siano ineludibilmente unite; la considerano ovvia, banale, insignificante. Al punto che … se ne dimenticano! Ma si dimenticano anche dell’intervallo.
Continuano così ad indaffararsi, barcamenandosi fra ciò che è accaduto già (passato) e ciò che si aspettano che possa succedere dopo (futuro). Con questo assetto mentale, senza quasi rendersene conto, si “bypassa” completamente il presente.
Ogni piccola cosa è trascurata, rimandata, non è così importante rispetto alle cose “grandiose” che ci aspetterebbero in chissà quale futuro, a compensazione dei dolori e degli errori del passato.
Peccato che nel frattempo l’intervallo passa e non c’è più tempo. Saltando a pie’ pari il presente, il futuro è già diventato passato.
Una vita scippata, invalidata, mortificata, sostanzialmente sprecata per inconsapevole scelta personale.
Tornando alla tradizione cristiana, suggestivo è il monito: “Ricordati che sei polvere, e in polvere ritornerai”.
Anziché essere tradotto in senso nichilistico, come fa tutta la cultura occidentale (“siamo nulla, veniamo dal nulla e nel nulla finiremo”), il rito delle ceneri può essere interpretato come un richiamo positivo a rivalutare l’umiltà a scapito della superbia e dell’orgoglio.
In senso spirituale rimanda alla “mortificazione” delle nostre parti peggiori, per la purificazione degli errori e delle colpe.
In realtà, il più grosso peccato che la maggior parte delle persone (e non solo dei cristiani) fa nella propria esistenza è quello di una diffusa e sistematica mortificazione della vita stessa, che diventa così una lamentazione costante, una sorta di maledizione, che viene trascinata con una cupezza diffusa, senza alcuno slancio vitale.
Per queste persone sarebbe bene prendere in considerazione la possibilità opposta, ossia quella della “vivificazione”, che significa letteralmente “fare vivere”, riportare nella propria vita di ogni giorno tutti gli aspetti positivi, il sorriso, la cordialità, la gratitudine, il gusto recuperato della normale quotidianità, fatta di cose semplici, il più delle volte gratuite, e non delle cose extra-ordinarie, sfavillanti, eccezionali.
Solo con questo approccio “vivo” alla vita, la stessa “mortificazione” acquista il suo vero valore, ossia quello di “far morire” le parti peggiori di noi (non solo i peccati morali, ma le nostre bassezze, le cattiverie, i pensieri negativi, le invidie distruttive, gli inevitabili difetti caratteriali, che in ogni caso non dovremmo mai far pesare sugli altri, tanto meno alle persone amate).
In pratica, tutto ciò che è di ostacolo ad una “normale” gioia di vivere, di contro ad una illusoria felicità.
Il vero problema della nostra esistenza terrena non è dunque la morte (che è solo trasformazione e non annientamento), ma la capacità di ritrovare il senso della Vita e assaporarla fino in fondo.
(*) Una precisazione: qui io parlo della vita “terrena”, del nostro essere al mondo qui e ora.
E siccome non credo affatto che siamo qui “per caso”, senza alcun senso, penso che ciò che facciamo (o non facciamo…) nella nostra esistenza (nell‘intervallo, appunto) abbia una qualche connessione con il “dopo”. Realizzare fino in fondo il nostro scopo di vita, in questa vita, credo sia cruciale per il nostro destino “oltre”.
[Rimando per chi volesse approfondire il tema a questo mio contributo: Essere e Nulla ]
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Circa l'autore:
Dr. Roberto Calia Psicologo Psicoterapeuta Milano