Fino a qualche anno fa, mai avrei pensato di aprire anch’io un sito web e presentarmi in questa “pubblica piazza”. Lo stereotipo classico voleva lo psicoanalista schivo e riservato, per evitare ai pazienti di fare i conti con l’immagine pubblica del terapeuta, rispetto ai loro vissuti (il famoso transfert). In un’epoca in cui tutto transita attraverso la “rappresentazione”, dove l’immagine sembra essere più importante della “presenza”, è diventato inevitabile anche per un professionista che si occupa del mondo interno delle persone confrontarsi con il mondo web, lo spazio virtuale (ma pur sempre reale) in cui il sociale del mondo d’oggi ha trovato un nuovo luogo per l’interagire degli individui, dei gruppi, dei soggetti sociali. Approcciando Facebook e gli altri “social”, mi sono reso conto che rifiutare di confrontarsi con questo spaccato di realtà significava sostanzialmente non comprendere più il reale nella sua nuova complessità.
Attraverso il web e i social le “connessioni” fra le persone hanno assunto proporzioni impensabili fino a qualche decennio fa, più vicine alle potenzialità straordinarie della natura umana (si pensi per analogia alle connessioni neuronali e alle funzioni cognitive ed emozionali della nostra coscienza, di fatto ancora solo parzialmente esplorate). In questo spazio sociale diviene possibile tutto, nel bene e nel male. Le persone agiscono qui il meglio e il peggio di sé. Con modalità diverse, ma sostanzialmente sovrapponibili a ciò che fuori di qui esiste davvero, non virtualmente. La presenza sul web stimola “naturalmente” il narcisismo delle persone, sia in senso esibizionistico (mettere in mostra le proprie qualità, non importa se presunte o reali), sia in senso megalomanico (ostentare la propria grandiosità, in modo del tutto autoreferenziale, anche senza alcun vero riscontro). D’altro canto in quest’epoca dell’immagine, non è forse vero che il successo sia del tutto confuso con la popolarità, anche in assenza di un vero talento? Al punto che se non appari (in TV, sui media), di fatto non esisti. L’identità coinciderebbe con la maschera e non invece con quello che ci sta dietro, che rappresenta invece la persona autentica, quando si manifesta nella sua nudità.
Per quanto riguarda i rapporti intersoggettivi e le possibilità di sviluppare autentiche relazioni fra persone, ho scoperto che le relazioni mediate dallo schermo permettono di dialogare su un registro che va dall’assoluta apertura fino alla più squallida simulazione. La relazione virtuale (da questa parte e dall’altra parte) facilita di fatto sia il liberarsi delle inibizioni comunicative, sia il rafforzamento delle stesse difese e quindi il nascondimento. Più che nel rapporto reale, face to face.
Le ragioni della mia presenza qui si sviluppano sostanzialmente su tre direzioni interconnesse.
Contribuire ad una corretta divulgazione scientifica
La prima ragione è quella di fornire il mio contributo informativo in una società che ha mille difetti ma presenta oggi un bisogno famelico di informazioni, a tutti i livelli. Attingendo alle mie competenze (cliniche, istituzionali e sociali), l’intendimento è quello di poter anch’io dare il mio contributo, ma ancor più di riuscire a stimolare questo bisogno trasformandolo da fame in sano appetito… Non tutto ciò che si apprende e circola in rete è sano e buono; bisogna imparare a distinguere il grano dal miglio, in modo da digerire ed assimilare meglio ciò che introiettiamo (il sapere non è tout court saggezza e tanto meno consapevolezza). Ne va della nostra salute, fisica, psichica e spirituale.
Confermare il mio impegno sociale
La seconda ragione è quella di confermare il mio impegno sociale per un mondo migliore, in un’epoca di grande impatto sull’evoluzione umana. La crisi che attraversiamo non è contingente o transitoria come vogliono farci credere, è una crisi strutturale e comporterà una frattura totale fra passato e futuro: è nel presente che dobbiamo agire se non vogliamo correre il rischio di una catastrofe antropologica. Non è più tempo di attesa, di delegare speranzosi le soluzioni agli altri (i politici, gli esperti, i tecnici); il mondo è nostro e NOI abbiamo la responsabilità e la competenza per riparare i guasti che NOI stessi abbiamo contribuito a provocare. Ognuno secondo le proprie possibilità ha il dovere morale di fare la sua parte in ogni ambito dell’agire sociale. Nel mio impegno istituzionale prima, ed ora qui e fuori di qui continuo a fare la mia parte.
Rendere pubblico il mio servizio
La terza ragione è quella di rendere “pubblico” il servizio privato che sono in grado di offrire in virtù delle competenze professionali acquisite. Questo si ricollega ad un impegno che ha caratterizzato buona parte della mia vita lavorativa, sia per lo sviluppo dei servizi alla persona (nelle Istituzioni pubbliche dove ho lavorato), sia per l’affermazione e lo sviluppo della professione di Psicologo (nell’Ordine professionale in passato e poi nelle Associazioni scientifico-professionali). Di fronte alla crisi sociale, il disagio umano è esponenzialmente in aumento; abbiamo il dovere etico di offrire sevizi sempre più qualificati, appropriati ed efficaci per rispondere alle aspettative della gente. Questo in sia ambito pubblico che privato.
Nel campo della salute esiste una “asimmetria” informativa fra il professionista e l’utente (se così non fosse verrebbe meno l’utilità sociale delle professioni d’aiuto), che deve essere gestita con sensibilità e responsabilità da parte soprattutto dell’operatore. Fornire alle persone (utenti dei servizi e potenziali pazienti) le giuste coordinate per orientarsi nella giungla inestricabile dell’offerta e scegliere con consapevolezza i servizi più aderenti ai propri bisogni ed aspettative, rappresenta un dovere ma anche un’opportunità, anche nell’ottica di una corretta azione di “marketing formativo”, che altrimenti si manifesta in modo aggressivo ed invasivo, in una mera logica di “mercato”. Del tutto inopportuna di fronte alla sofferenza e alla dignità delle persone.
Un’ultima spiegazione sul titolo del mio Spazio Web, che si sviluppa in due parti (il sito ufficiale e il blog). Perché “Una questione di spirito“?