Un figlio oltre il bisogno
Affrontiamo il tema dell’adozione, partendo non tanto dalle motivazioni esplicite che le coppie manifestano quando decidono di adottare un bambino, quanto dalle dinamiche e dai processi, fondamentalmente inconsci, che si innescano nella coppia e che sono alla base delle motivazioni stesse, non solo sul piano psicologico personale, ma anche (e soprattutto) sul piano relazionale.
Mi sono occupato di adozione nell’ambito del mio lavoro di psicologo e psicoterapeuta sia nel settore pubblico che privato; in particolare, all’interno delle attività dei Consultori familiari, che sono chiamati a collaborare con i Tribunali per i Minorenni nella valutazione delle coppie che presentano la domanda di adozione, sia nazionale sia internazionale. Sostanzialmente viene richiesta un’indagine psicosociale finalizzata a fornire approfondite indicazioni circa la personalità dei due partner, la loro situazione sociale e relazionale, le attitudini di entrambi i coniugi allo svolgimento dei compiti genitoriali. Si tratta, come si può immaginare, di un compito certamente non sempre facile, ma che negli anni ci siamo attrezzati a svolgere con buona dimestichezza.
Tenuto conto che il principio che determina la lunga trafila adottiva (in un certo senso l’equivalente simbolico dello stato di gravidanza, la gestazione prima del parto) è la tutela del minore, il nostro orientamento si è progressivamente spostato non tanto sulla valutazione dell’assetto personologico dei membri della coppia – escludendo evidentemente le situazioni, a dire il vero rare, di chiaro disagio psichico o conclamata psicopatologia – quanto sull’assetto relazionale della coppia; ciò a partire dalle rappresentazioni interne relative ai ruoli di marito-moglie, padre-madre, alle fantasie sul bambino in arrivo, ai cambiamenti che questo evento può portare nella loro esistenza dal punto di vista affettivo e della concreta realtà quotidiana.
In tale ottica, il nostro interesse si è focalizzato più direttamente sull’indagine della “coppia interna” e sull’esistenza di quel “senso del Noi” che è costitutivo della coppia stessa.
In un mio precedente lavoro che affrontava il tema della consultazione psicologica per sterilità, avevo fatto rilevare – senza nessuna pretesa statistica – come “… circa i due terzi delle coppie che selezioniamo nel corso dell’iter adottivo presentino una sterilità con una diagnosi incerta, comprendendo in questo termine tutti quei casi che vanno dal mancato approfondimento dell’iter diagnostico alla diagnosi approssimata o alla definizione di sterilità sine causa, tutti comunque accomunati dal mancato riconoscimento clinico-obiettivo di una sterilità organica”.
In quel contributo mi ero spinto a proporre di eliminare “la presunzione di fare diagnosi di sterilità psicogena” non considerandola una categoria clinico-nosografica in senso stretto, in quanto non sono mai stati descritti una sindrome di sterilità psicogena né, tanto meno, un profilo personologico usuale di donna sterile. Evitare l’“equivoco scientifico” di una diagnosi psicologica nel campo della sterilità (anzi, più correttamente, in quello dell’infertilità) sarebbe servito a richiamare con maggiore evidenza
“…la consapevolezza di operare nell’area “minata“ al confine fra il biologico e lo psicologico – quella della procreazione – là dove nel significato più misconosciuto e segreto – inconscio, appunto – si attua il più vero e “misterioso salto” dal corpo alla mente.” (Calia)
Il problema dell’infertilità, nelle coppie che scelgono di adottare non avendo figli “naturali”, è infatti un passaggio inevitabile verso lo sviluppo di un desiderio autenticamente maturo di un bambino da adottare, come “oggetto d’amore” e non soltanto come “oggetto–Sé” compensatorio, in uno o entrambi i membri della coppia. E questo non sempre è dato quando una coppia si presenta ai colloqui di valutazione.
Se la sterilità è determinata da cause organiche, obiettivamente identificate, la coppia in genere ha affrontato coscientemente il problema e ha messo in atto strategie di condivisione del dolore che la perdita della capacità riproduttiva inevitabilmente comporta. Il più delle volte è presente una solidarietà di coppia che consente il passaggio dal bisogno (individuale prima e di coppia dopo) al desiderio di complementarità e di integrazione, con l’accesso dunque all’idea condivisa di un bambino da allevare e da amare, come “oggetto comune”, investito affettivamente ed emotivamente, ma riconosciuto come “altro Sé”, protagonista autonomo nello scenario familiare ricreato.
Spesso tuttavia l’elaborazione del lutto relativo alla perdita biologica della fecondità non è avvenuta in maniera compiuta: allora il bisogno del bambino si presenta ancora come impellente, come necessità di ipercompensazione, di riempimento di un vuoto avvertito penosamente come disturbo nell’identità personale, sociale e di coppia.
Ciò accade il più delle volte proprio nei numerosi casi di sterilità sine causa, cosa che per noi psicologi non è affatto sorprendente e tantomeno paradossale. Le cause stesse che sono alla base (nel profondo, appunto) dell’infertilità continuano a manifestarsi nel proporsi della domanda adottiva e nella costellazione relazionale con la quale la coppia si presenta alla consultazione. Le manovre difensive attuate dai due partner sono evidenti; ciascuno di essi, individualmente, mette in campo le risorse psichiche di cui dispone (meccanismi nevrotici o caratteriali), a conferma di quel “patto collusivo” che si stabilisce nella coppia fin dal suo costituirsi. I partner sembrano rassegnati di fronte al criterio “uniti, ma sempre divisi”: in altre parole, sono fondamentalmente soli di fronte al dolore e incapaci di riprogettare e con-dividere una prospettiva futura della propria esistenza.
Non vi è dubbio che l’idea di un figlio, con i problemi che la concretizzazione di questa idea comporta, rimandi allo scenario infantile dei rapporti con i genitori in quanto coppia, con la madre e con il padre; e non solo alla storia reale del passato, quanto piuttosto alla rappresentazione che di esso ci si è fatti e di ciò che è stato interiorizzato in termini di codici affettivi e simbolici, di figlio, di genitore, di uomo o di donna.
Richiamando il lavoro già citato, “…fenomenologicamente la sterilità è una condizione di staticità,, uno stop fra la nascita e lo sviluppo della persona, un arresto della creatività verso la realizzazione di sé: un blocco della vita, nel tentativo forse di esorcizzare la morte”
In queste coppie è evidente un calo della tensione relazionale, una sorta di “assideramento lipidico-emotivo”. La distanza fra l’uomo e la donna è eccessiva, difficilmente modulabile; entrambi i coniugi sono arroccati narcisisticamente a difesa delle rispettive fragilità, malamente negate da questa rappresentazione tragica: non c’è più, o forse non c’è mai stata, la simbiosi tipica dell’innamoramento e non è fruibile, per eccesso, la posizione schizoide sana che caratterizza, appunto, la creatività e il recupero della piena potenza della persona.
Per rappresentare tali concetti, non si pensi solo alle coppie attraversate da grandi silenzi e da un marcato calo della tensione erotica, ma anche a quei partner perennemente in lotta, conflittuali su tutto, ingaggiati incessantemente a piegare l’altro ai propri bisogni infantili non soddisfatti, fantasmi che premono per un illusorio appagamento e una riattualizzazione. Nulla può appagare oggi, ciò che appartiene al passato.
La permanenza in tale posizione narcisisticamente immatura è riscontrabile, nel corso dell’indagine adottiva, dall’assenza di un autentico desiderio per “un bambino reale” : l’idea è vaga, generica, quasi differenziata; manca la “concezione” di un vero bambino, in carne ed ossa!
D’altro canto, come aveva già rilevato Freud, la presenza del desiderio di avere un figlio (nella donna , ma può valere ugualmente per l’uomo) non è ancora amore oggettuale, ma espressione di amore di sé, di un desiderio dunque ancora personale e non ancora relazionale, condiviso.
Vorrei qui precisare che il narcisismo, dal punto di vista psicoanalitico, non corrisponde necessariamente a stati patologici né, tanto meno, ha una qualsiasi connotazione morale; a partire dalle riformulazioni di Kohut, i concetti di narcisismo, Io e Sé sono diventati indissolubilmente legati e spesso sovrapponibili. Altrove (Calia 1997) ho espresso l’orientamento, sia clinico sia esistenziale, a considerare tali concetti in termini soprattutto di “processi mentali”, piuttosto che di astrazioni teoriche o addirittura di reificate “strutture mentali”. In questo senso considero il Sé e il narcisismo come stati processuali di un organismo vivente la cui natura fondamentale è la relazione con l’altro e la cui matrice energetica è la tensione relazionale fra il soggetto e l’oggetto.
Kohut stesso (1976) ha precisato che “non esiste un amore maturo in cui l’oggetto d’amore non sia anche un oggetto-Sé (cioè narcisistico) … non esiste un rapporto d’amore senza un reciproco rispecchiamento ed una reciproca idealizzazione”. Possiamo dunque riservare – in senso stretto – il termine “narcisistico” a quelle manifestazioni di un Sé fragile e frammentato, che precludono certamente lo sviluppo di una gratificante relazione d’amore e la stabilizzazione funzionale del rapporto di coppia.
Riprendendo il discorso sul nostro compito valutativo di una coppia che ha scelto l’adozione, tali concezioni del Sé e del rapporto d’amore appaiono fondanti, permettendo di indagare e definire meglio il livello complessivo di sviluppo personale e relazionale dei due partner. Si possono infatti individuare altri “parametri” di un Sé stabile e coeso in questi ulteriori aspetti:
- la realizzazione di sé in un’attività lavorativa che sia espressione della propria creatività e delle proprie attitudini personali;
- un armonioso rapporto con il proprio corpo, vissuto come parte integrante e positiva di sé, non come appendice in perenne pericolo o in continuo procinto di un tradimento della mente;
- la consapevolezza delle proprie mete personali, dei propri bisogni e delle parti di sé proiettate sugli altri come aspettative, il progressivo affrancamento da un’estenuante dipendenza immatura da oggetti interni ed esterni.
Come sostiene Lopez (1983) … “La meta maturativa del Sé è la persona. Solo l’avvistamento della meta nella fenomenologia del Sé permette di evitare deviazioni e svolte regressive … Questa meta è la persona e l’area relazionale persona-persona, l’area della genitalità”.
La coppia che si accinge all’adozione, dunque, proprio perché costretta dalla sua stessa scelta e dalla sua autodeterminazione, è messa di fronte alla possibilità di compiere il passaggio verso un superiore livello di sviluppo emotivo e di maturità affettiva. Per giungere a questo è necessario che ognuno dei due partner – consapevolmente e inconsapevolmente – accetti il rischio di rinunciare alla “riparazione” infantile, mettendo in discussione le stesse rappresentazioni interne del passato, (le idee consce e inconsce che ognuno di noi ha dei propri ruoli, delle modalità di essere e di funzionare, di considerare il padre, la madre, la moglie, il marito, i figli e così via). Solo una tale rinuncia permette il superamento della dimensione individuale e l’accesso al rapporto persona-persona, al pieno recupero della dimensione erotico-genitale e quindi al costituirsi della vera coppia coniugale.
Questo complesso processo intimo ed esterno alle singole persone è tutt’altro che “naturale”; implica infatti il dispiegamento di notevoli energie psichiche (la “volontà di potenza” di Nietzsche), una solida capacità di sopportare ed elaborare il dolore per le inevitabili perdite che la vita comporta e non è dunque affatto alla portata di tutti! E’ un processo eminentemente culturale, in quanto implica l’elevamento dalla “capricciosità” della natura e dall’ineluttabilità del destino.
Il passaggio dalla coppia coniugale alla coppia genitoriale, in questa ottica di affrancamento dalla natura e dalla limitazione biologica, permette alla coppia che ha scelto l’adozione di accogliere un bambino e di amarlo come figlio, perché egli non ha più la funzione di dover confermare l’identità dei propri genitori ed è “concepito” per quello che è: soggetto d’amore e oggetto di gioia.
Conclusioni
Al di là delle motivazioni esplicite, la scelta verso l’adozione implica nella coppia un complesso processo psicologico e relazionale, sul piano sia conscio sia inconscio. Ciascuno dei due partner deve elaborare il significato profondo che tale scelta comporta sulle rappresentazioni di Sé, del proprio essere marito o moglie, del proprio divenire padre o madre, della famiglia interna che ognuno di noi ha come retaggio del proprio passato relazionale con i genitori e con il clima affettivo che ha accompagnato il nostro sviluppo.
L’iter che porta all’adozione, previsto dalla legge a tutela soprattutto del minore adottando, costituisce in realtà un valido banco di prova per saggiare il livello di consapevolezza raggiunto dalla coppia sul proprio sistema di relazioni, sulla capacità di com-prendere (reciprocamente) i bisogni dell’altro, sulla consistenza di quel “senso del Noi” che dovrebbe rappresentare il superamento maturo del narcisismo patologico, tipico di un Sé fragile, ferito nelle potenzialità primarie (biologiche) procreative e arroccato su un desiderio personale, individualistico di compensazione.
Desiderare un figlio, anche un figlio naturale, non costituisce di per sé una scelta di coppia (del “Noi”) ma una naturale spinta alla realizzazione di sé: l’equivalente dell’istinto riproduttivo delle altre specie animali.
Per amare veramente, profondamente un bambino, non un bambino qualsiasi, ma un bambino nostro, che nella fantasia dei due partner sia qualcosa di più di un feticcio narcisistico, di un oggetto transizionale, di un compromesso riparatorio della coppia, bisogna prima che l’uomo e la donna si amino e si completino in termini di reciprocità e simmetria.
La scelta all’adozione di una coppia matura, ancor più della nascita di un figlio “biologico”, può segnare questo passaggio, contribuendo alla costituzione di un’autentica famiglia, come nucleo affettivo-relazionale composto da persone e non più da semplici individui.
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Circa l'autore:
Dr. Roberto Calia Psicologo Psicoterapeuta Milano