Vivere o mortificare?

Buona vita e vita alla buona

“Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la vita per le pecore…”.
(Gv. 10,11-11)

Al di là del significato religioso, in chiave psicologica la parabola del buon pastore serve da spunto per una riflessione su quali siano gli elementi essenziali che, nella nostra vita concreta, caratterizzano ciò che è buono, da ciò che non lo è, sia dal punto di vista etico che delle propensioni e delle azioni, verso se stessi e gli altri. Senza tanti giri di parole, una cosa è buona se “fa bene”, se procura benessere (e già questo tanto ovvio non è, considerato il disordine dilagante nei comportamenti e nei costumi contemporanei!).
Quanto irrita la nostra superbia, il nostro narcisismo onnipotente il solo sentire la parola pecora! E invece le “pecore” siamo noi e gli altri, senza distinzione alcuna. Così il “buon pastore” siamo sempre noi stessi, che siamo chiamati a condurre una vita finalizzata al bene, ad amare noi e gli altri indistintamente, perché l’amore degli altri non può esserci senza l’amore di sé (“ama il prossimo come te stesso”). E viceversa.
Dare la vita non significa morire (quanto siamo ossessionati e spaventati dalla morte, come se potesse essere negoziabile!), significa invece donarsi alla vita: il problema dunque non è morire ma esser vivi mentre viviamo.

Oltre la mortificazione dell’esistenza

“Morire non è nulla; non vivere è spaventoso” (V. Hugo).

Nella tradizione religiosa cristiana, anche il periodo di quaresima, che culmina con la resurrezione di Cristo a Pasqua, può servire simbolicamente a farci riflettere sulla nostra condizione esistenziale, sul senso della vita e della morte, e a ricordarci da dove veniamo e dove siamo diretti.
Molte persone non si interrogano affatto su questo, ma vivono piuttosto un costante stato d’apprensione verso la propria salute e la propria esistenza.
Avvertono perennemente sintomi e disagi del corpo, con la paura di poter essere seriamente ammalati e, in ultima analisi, di dover morire. Sono così morbosamente attaccati alla vita che finiscono paradossalmente per viverla da malati.
“Noi siamo paurosamente preoccupati della nostra morte, spesso tanto da dimenticare il vero scopo della nostra vita” (B. Weiss).
Per l’ansia di ammalarsi, oppure di non saper fronteggiare i problemi della vita (soldi, relazioni, futuro, ecc.) di fatto “mortificano” e condizionano pesantemente la propria esistenza (e quella delle persone che gli vivono accanto). Per paura di non farcela, di morire, rischiano di morire psicologicamente di paura.

Il problema non è la morte, che è data per tutti, ineluttabilmente. Il problema è la vita, ciò che realmente riusciamo a farne nel tempo che ci è dato di poterne partecipare. Una concezione dunque della morte viva e non di una vita morta, attraverso una continua, strisciante mortificazione dell’esistenza.
Il mondo odierno, troppo attaccato alle cose materiali, è più interessato ai “segni del potere”, alle manifestazioni di quella che Nietzsche chiamava “volontà di potenza”, piuttosto che al “potere dei segni”, più tipico del mondo spirituale. E invece sono spesso i piccoli segni (una manifestazione affettiva, un’emozione, lo stupore di qualcosa d’imprevisto, ecc.) che ci riempiono di gioia, rispetto ai grandi eventi materiali che illusoriamente inseguiamo come se fossero il vero fine della vita.
La parabola del buon pastore fa intravedere quattro aspetti cruciali che dovrebbero essere presenti nel nostro agire quotidiano, qui su questa terra, non altrove, al di là dei propri valori o delle proprie visioni spirituali (*).
– CONSAPEVOLEZZA: per vivere e fare “bene”, a se stessi o agli altri, occorre prima di tutto conoscersi e conoscere gli altri, per orientare le nostre intenzioni e per finalizzare i nostri pensieri e i nostri comportamenti. Molti si lamentano che la vita non gli dà molto, quando spesso non conoscono neanche i propri desideri più veri e profondi.
– MOTIVAZIONE: bisogna avere un interesse vero per le persone e per le cose della vita (al mercenario “non importa delle pecore”, al buon pastore sì…). Senza un giusta determinazione ad andare verso ciò che desideriamo, verso ciò che vogliamo, si cade nel nichilismo e nel qualunquismo.
– DISPONIBILITÀ: bisogna essere disponibili a mettersi in gioco, a rischiare, ad andare fino in fondo; occorre una completa dedizione alla vita, per essere capace di accogliere e tollerare sia il bene che il male, i doni ma anche i dolori (“il buon pastore dà la vita per le sue pecore”…).
– ASCOLTO: la parola ascoltare deriva da ab audire, che si può tradurre anche come “obbedire”, essere al servizio; è necessario quindi essere capaci di ascoltare e accettare i propri bisogni e quelli degli altri, che poi vuol dire avere rispetto, saper mantenere gli impegni presi e la parola, quella data e quella ricevuta.

Non pretendiamo certo di poter essere come Gesù (preso laicamente come figura umana anche solo a riferimento simbolico), ma una riflessione su ciò che la parabola ci richiama, può servire forse a darci qualche indicazione per cercare di condurre una esistenza in pienezza e responsabilità, vivere compiutamente una “buona vita”, piuttosto che una “vita alla buona”.
La nostra esperienza di vita terrena è in ultima analisi l’intervallo fra la nascita e la morte. Perché buttare via questo intervallo? Perché non onorare fino in fondo questo passaggio, questo spazio/tempo che ci è donato?

Morte viva e vita morta

”Il principio e la fine: nel mezzo la meraviglia della vita” (M. Trevisan).

Tutto dipende dunque da come usiamo questo intervallo. Molti non vogliono nemmeno sentire questa semplice verità, ossia che la vita e la morte siano ineludibilmente unite; la considerano ovvia, banale, insignificante. Al punto che … se ne dimenticano! Ma si dimenticano anche dell’intervallo. Continuano così ad indaffararsi, barcamenandosi fra ciò che è accaduto già (passato) e ciò che si aspettano che possa succedere dopo (futuro). Con questo assetto mentale, senza quasi rendersene conto, si bypassa completamente il presente. Ogni piccola cosa è trascurata, rimandata, non è così importante rispetto alle cose “grandiose” che ci aspetterebbero in chissà quale futuro, a compensazione dei dolori e degli errori del passato.
Peccato che nel frattempo l’intervallo passa e non c’è più tempo. Saltando a pie’ pari il presente, il futuro è già diventato passato. Una vita scippata, invalidata, mortificata, sostanzialmente sprecata per inconsapevole scelta personale.

Tornando alla tradizione cristiana, suggestivo ancora è il monito: “Ricordati che sei polvere, e in polvere ritornerai”.
Anziché essere tradotto in senso nichilistico, come fa tutta la cultura occidentale (“siamo nulla, veniamo dal nulla e nel nulla finiremo”), il rito delle ceneri può essere interpretato come un richiamo positivo a rivalutare l’umiltà a scapito della superbia e dell’orgoglio. In senso spirituale rimanda alla “mortificazione” delle nostre parti peggiori, per la purificazione degli errori e delle colpe.
In realtà, il più grosso peccato che la maggior parte delle persone (e non solo dei cristiani) fa nella propria esistenza è quello di una diffusa e sistematica mortificazione della vita stessa, che diventa così una lamentazione costante, una sorta di maledizione, che viene trascinata con una cupezza diffusa, senza alcuno slancio vitale.
Per queste persone sarebbe bene prendere in considerazione la possibilità opposta, ossia quella della “vivificazione”, che significa letteralmente “fare vivere”, riportare nella propria vita di ogni giorno tutti gli aspetti positivi, il sorriso, la cordialità, la gratitudine, il gusto recuperato della normale quotidianità, fatta di cose semplici, il più delle volte gratuite, e non delle cose extra-ordinarie, sfavillanti, eccezionali.
Solo con questo approccio “vivo” alla vita, la stessa “mortificazione” acquista il suo vero valore, ossia quello di “far morire” le parti peggiori di noi (non solo i peccati morali, ma le nostre bassezze, le cattiverie, i pensieri negativi, le invidie distruttive, gli inevitabili difetti caratteriali, che in ogni caso non dovremmo mai far pesare sugli altri, tanto meno alle persone amate). In pratica, tutto ciò che è di ostacolo ad una “normale” gioia di vivere, di contro ad una illusoria felicità.
Il vero problema della nostra esistenza terrena non è dunque la morte (che è solo trasformazione e non annientamento), ma la capacità di ritrovare il senso della Vita e assaporarla fino in fondo.

(*) Lo spunto per le riflessioni del presente contributo mi è stato fornito dall’ascolto di due splendide omelie di mons. Erminio De Scalzi, già Vescovo ausiliare ed Abate della basilica di Sant’Ambrogio di Milano.
Una precisazione: qui io parlo ovviamente di questa vita, non del destino altro che ci attende in una altra vita, in ogni caso: che sia la gloria, come credono filosofi e religiosi, oppure il nulla, come dicono i nichilisti. Parlo della vita terrena, del nostro essere al mondo qui e ora. E siccome non credo affatto che siamo qui per caso, senza alcun senso, penso che ciò che facciamo (o non facciamo…) nella nostra esistenza (nell‘intervallo, appunto) abbia una qualche connessione con il dopo.
Realizzare fino in fondo il nostro scopo di vita, in questa vita, credo sia cruciale per il nostro destino oltre.

[per chi volesse approfondire il tema rimando a questo altro contributo: Una questione di spirito: “Essere e Nulla”]

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Circa l'autore:

Dr. Roberto Calia Psicologo Psicoterapeuta Milano
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