Empatia ed ascolto

Il silenzio e l’ascolto

“Le parole si parlano, i silenzi si toccano.”
(F. Caramagna)

Il silenzio ha una dimensione propria, una qualità straordinaria. Ascoltandolo possiamo imparare a sentire molte cose. Per passare dal monologo al dialogo, per dar modo all’altro di parlare, per ascoltare bisogna tacere. Allo stesso modo, qualche volta si deve tacere, per costringere l’altro ad avvertire l’assenza, a volgere lo sguardo verso di te e ad ascoltarti. Se ciò non avviene, non c’è comunicazione ma autoreferenzialità e chiusura.
“Chi non comprende il tuo silenzio, probabilmente non capirà nemmeno le tue parole” (E. Hubbard).

Ogni giorno un Maestro zen era sommerso di domande a cui rispondeva di volta in volta con serietà e ironia sottile, sempre gentilmente ma fermamente.
Una discepola sedeva in silenzio, sempre in disparte. Quando le chiesero il perché, lei rispose:
“Non sono tanto attratta da ciò che dice. Sono troppo assorbita dal suo silenzio. C’è chi serba il ricordo delle sue conversazioni, io rammento il suo maestoso silenzio” (da: A. De Mello).
Così il silenzio diviene la forma più alta della parola. Questo è il segreto del silenzio!
Comprenderlo è la forma più sottile della relazionalità umana.

“La gente non ascolta, aspetta solo il suo turno per parlare” (C. Palahniuk).
Per affinare la nostra capacità di ascolto, dobbiamo dunque imparare a sostare nel silenzio.
Ascoltare etimologicamente deriva da ab-audire, molto vicino ad ob-audire, ossia “obbedire”. Implica quindi mettersi attivamente a disposizione dell’altro. Significa sostanzialmente essere per un attimo al servizio dell’altro. Ecco perché è difficile ascoltare.
Ascoltare non è semplicemente udire. Ab-audire vuol dire essere interessato all’altro, accogliere quello che l’altro ha da dire, sospendendo ogni giudizio (ossia ascoltare autenticamente l’altro senza pregiudizi, pensando già di sapere quello che l’altro ci sta comunicando). Per poi aprire alla eventualità di essere ricambiato, di dare all’altro la possibilità a sua volta di restituire il “servizio” di obbedienza.
Sempre che sussista questa reciprocità, disponibilità che va verificata con l’uso dell’empatia. Cosa che non sempre avviene.
Ascoltare è virtù rara al giorno d’oggi perché implica uscire, anche solo per un brevissimo tempo, dalla centratura su sé stessi. È per questo che difficilmente si vedono due persone dialogare. Si preferisce il monologo. Di solito si comunica attraverso “monologhi alternati”, che non si incontrano mai, come due binari paralleli: ognuno segue il suo corso, le sue motivazioni, il suo senso. Al limite, si ascolta l’altro solo per il tempo necessario a riprendere fiato e aspettare il proprio turno per ritornare a parlare.
Si parla su livelli differenti, senza incontrarsi veramente; come si suol dire: “ci si parla addosso”. Che è il massimo della solitudine in compagnia!

Ascolto ed empatia

“Pensiamo di ascoltare, ma solo raramente ascoltiamo con una reale comprensione, con un’empatia vera. Eppure, questo tipo molto speciale di ascolto rappresenta una delle forze più potenti, ai fini del cambiamento, che io conosca … Quando una persona capisce di essere sentita profondamente, i suoi occhi si riempiono di lacrime. Io credo che, in un senso molto reale, pianga di gioia. È come se stesse dicendo: “Grazie a Dio, qualcuno mi ascolta. Qualcuno sa cosa vuol dire essere me” (C. Rogers).

L’empatia è la risorsa psico-biologica di base della nostra capacità umana come “esseri relazionali”. È la capacità di entrare in relazione profonda fra le persone, provando in sé stessi le sensazioni, percezioni ed emozioni provate da un’altra persona.
L’empatia (en, dentro e pathos, sentimento) consente di entrare in comunicazione emozionale con l’altro. È diversa dalla simpatia (sin, con, insieme), che consiste nella condivisione dei medesimi sentimenti.
L’esperienza empatica è caratterizzata dal comune “sentirsi”: io sento di calarmi dentro i tuoi sentimenti e le tue emozioni e tu senti di essere capito. Io non mi confondo con te e non fraintendo i tuoi sentimenti con i miei. Entro “dentro” la tua psiche, ma dopo ne esco e tu rimani “padrone” della tua mente.
Molto del lavoro psicoterapico, al di là di specifici passaggi o processi, si fonda su questi aspetti.
“Quando qualcuno ti ascolta davvero senza giudicarti, senza cercare di prendersi la responsabilità per te, senza cercare di plasmarti, ti senti tremendamente bene. Quando sei stato ascoltato e udito, sei in grado di percepire il tuo mondo in modo nuovo e andare avanti” (C. Rogers).

È la descrizione dell’esperienza empatica, ossia del sentirsi compresi (presi insieme), non semplicemente capiti. Accettati senza essere giudicati.
Quando si ascolta empaticamente non c’è bisogno di molte parole, è l’intenzionalità che conta, l’incontro reciproco con lo sguardo. Parlare è il modo di esprimere sé stesso agli altri. Ascoltare è il modo di accogliere gli altri dentro di sé.
Quante volte invece, di fronte a situazioni difficili o drammatiche, anziché ascoltare siamo prodighi di “buoni” consigli? I consigli non sono quasi mai di alcuna utilità per l’altro, perché sono all’opposto dell’ascolto empatico, partono dal presupposto sbagliato di “ciò che farei io al posto tuo…”. Servono solo a chi ascolta per allontanare da sé il coinvolgimento e la condivisione dell’angoscia dell’altro.
Entrare dentro l’altro, tanto più se è un’esperienza reciproca e contemporanea, richiede una grande sensibilità e delicatezza, perché non si trasformi in una eccessiva invasività. Se ci mettiamo in ascolto dell’altro, con cui siamo in sintonia empatica, possiamo arrivare a percepire non solo le emozioni e i pensieri più salienti, ma persino le tensioni somatiche, i desideri che coinvolgono il corpo, comprese le fantasie erotiche.
Richiede quindi il rispetto dell’altro come persona-altra-da-sé e della sua intimità privata.
“Ascoltare senza pregiudizi è il più grande dono che puoi fare ad una persona” (D. Waitley).
Diversamente il piacere reciproco dell’esperienza empatica può rapidamente estinguersi e trasformarsi nella distanza emotiva. Il Sé reclama la sua dignità e non tollera prevaricatori, tantomeno manipolatori malefici.
L’empatia non è una mera percezione psicologica, ha invece un fondamento psicobiologico e coinvolge, oltre che la mente, anche tutto il corpo. La capacità di sentire ciò che sta accadendo ad un’altra persona, si fonda sul fatto che il nostro corpo entra in risonanza con altri corpi viventi (A. Lowen).
Con la scoperta dei neuroni specchio, le neuroscienze hanno dimostrato la nostra innata tendenza alla socialità. Lo sviluppo delle tecnologie e delle relazioni virtuali non solo non hanno distrutto tale risorsa, ma hanno addirittura reso ancora più indispensabile l’uso dell’empatia per conservare intatta la condizione umana. Senza empatia non saremo in grado di affrontare i grandi cambiamenti sociali e ambientali. Se non prendiamo atto che condividiamo lo stesso destino, che siamo tutti coinvolti e che le sofferenze dei nostri vicini non sono diverse dalle nostre, senza una nuova coscienza universale non potremo evitare un collasso planetario.
L’ Empatia e la Compassione saranno sempre più necessarie per estendere in un abbraccio universale l’intera umanità e tutte le forme di vita che abitano il pianeta. Sempre che siamo in grado (ed in tempo) di compiere questo salto evolutivo nella consapevolezza collettiva, prima che il rullo compressore dell’egoismo e della distruttività umana non abbia compiuto il suo corso.

Silenzio e rumore

“Il primo livello di sapienza è saper tacere.
Il secondo è saper esprimere molte idee con poche parole.
Il terzo è saper parlare senza dire troppo e male”
(H.H. Mamani).

Oggi tutto intorno a noi è rumore. L’uomo moderno non sa più stare solo, né sopporta il silenzio.
Nella solitudine autoreferenziale a cui la vita frenetica e il progresso ci costringono, noi cerchiamo spasmodicamente di restare connessi agli altri, per tentare di affogare un senso di vuoto opprimente, immergendoci in rumori di ogni sorta (R. Panikkar).
Sembra che tutto ciò che rafforza il nostro Ego debba essere “rumoroso” (azioni, tecnologie, lavoro, divertimento). Non siamo più capaci di sostare e di godere del silenzio.
“Non occorre andare sulla cima delle montagne per cercare la calma e nemmeno nelle grandi città per trovare fragore: abitano entrambi dentro di noi” (R. Battaglia).
Il silenzio spesso invece dice più di mille parole.

Se si applicasse anche nei social questa regola, il traffico di parole, le vetrine verbali, le bacheche dell’ovvio, si ridurrebbero drasticamente. A tutto vantaggio di un silenzio interiore, più vuoto di parole ma più pieno di significati. Ci sono silenzi pieni di senso. E ci sono parole vuote di significato.
“La migliore parola è quella non detta!” dice difatti un vecchio proverbio popolare. Si dovrebbe parlare solo quando si ha da dire qualcosa di utile o significativo o, perlomeno, che valga più del silenzio.

La parola

“Prima di parlare domandati se ciò che dirai corrisponde a verità, se non provoca male a qualcuno, se è utile, ed infine se vale la pena turbare il silenzio per ciò che vuoi dire” (Buddha).

In un mondo che esalta l’ipertrofia dell’Io, al silenzio e all’ascolto si preferisce il frastuono della parola. Il parlare diviene così una chiara manifestazione e un mezzo dell’apparire.
Parlare in pubblico per alcuni è facile, salgono con leggerezza sul “palco”, dicono qualunque cosa, anche insignificante o a sproposito, senza curarsi troppo del contesto.
Altri, solo all’idea di prendere la parola, di essere al centro dell’attenzione, sono bloccati dalla paura, vengono assaliti dall’ansia, si preoccupano del giudizio di chi ascolta, temono di fare “brutta figura”. La loro angoscia può arrivare fino al panico.
Nei primi non agisce alcun filtro cosciente, non si pongono limiti, presumono che ciò che dicono sia “buono e giusto” e lo dicono, senza alcuna empatia verso chi ascolta.
Infatti, non sono affatto interessati ad ascoltare l’altro, quello che dicono loro è a priori più interessante!
Per gli altri, quelli che hanno paura di parlare, il blocco nasce dal conflitto fra il bisogno narcisistico di esibire il proprio Sé e la paura dell’insuccesso. Anche per i “timidi” è così: parlare in pubblico mette a dura prova il loro fragile Sé, che è alla base di una personalità insicura.
Il narcisista parimenti è “fregato” dal suo stesso bisogno: più si aspetta gratificazione e riscontro della propria grandiosità, più teme che possa fallire. Per lui, il parlare non è il semplice comunicare fra persone alla pari; egli “pretende” sempre da sé stesso di dire cose eccezionali e interessanti, rendendosi così dipendente in tutto dalla approvazione degli altri.

Al pubblico viene impropriamente assegnato il compito di essere la giuria della sua performance esibizionistica. Lo stare con gli altri è una estenuante competizione, una esibizione perpetua di presunti talenti.
In entrambi i casi, la parola, da normale medium di dialogo fra le persone, fra soggetti che si sentono pari e non in contrapposizione, diviene strumento di affermazione di sé, dove l’altro è il semplice “specchio delle proprie brame!”
In un sol colpo si perde sia la pace del silenzio, sia la gioia dell’ascolto reciproco.
“Parlare eloquentemente è una gran bella arte, ma è parimenti grande conoscere il momento giusto in cui smettere” (W.A. Mozart).

Un maestro stava per iniziare il suo discorso, quando un uccellino attaccò a cantare. Il maestro non parlò e tutti ascoltarono l’uccellino. Cessato il canto, il maestro disse: “Bene, il sermone è terminato”, e così se ne andò (storiella Zen).
Chi sa parlare deve dunque sapere quando è il momento di parlare; così sa anche quando è il momento di tacere. E lo esprime bene in entrambe le circostanze, in tutte e due i modi!

Impara a non distruggere con le parole quello che hai creato con il silenzio” (C. Bukowski).
Se non è sempre necessario dire tutto quello che si pensa, tuttavia è indispensabile pensare prima tutto ciò che si dice. Nel dubbio, meglio restare in silenzio. È inutile cercare le parole per spiegare ciò che nel silenzio trova il suo vero significato.
Nel silenzio la comunicazione avviene attraverso il linguaggio primario, che è fondamentalmente non-verbale. È il linguaggio delle emozioni, che possono esprimersi fuori dagli schemi della razionalità. La sola ragione che lo guida non è il piacere in sé, ma il piacere della relazione con l’Altro.

“La parola è una chiave, ma il silenzio è un grimaldello” (G. Bufalino).
Cosi ammoniva Madre Teresa di Calcutta: “Dio non può essere trovato nel rumore e nella irrequietezza. Dio è amico del silenzio. Guarda come la natura – gli alberi, i fiori, l’erba crescono in silenzio. Guarda le stelle, la luna e il sole, come si muovono in silenzio. Abbiamo bisogno di silenzio per essere in grado di toccare le anime.”
L’anima privilegia il silenzio per parlare; nel silenzio trova spazio per esprimersi più che nel frastuono del mondo. Nel silenzio, senza rumore, libere dall’obbligo delle parole, le Anime possono finalmente comunicare. Libera dalle sovrastrutture umane, la vera natura dell’uomo può manifestarsi nella sua essenza più autentica.

In ascolto di se stessi

“Ogni tanto concedi a te stesso del tempo per stare in silenzio e solitudine. Ti verrà rivelato qualcosa di più profondo e vero” (D.R. Kingma).

Quando hai dei dubbi, quando non capisci esattamente quel che ti succede, lo stato d’animo che provi, le emozioni; quando non comprendi il “perché?”, quando non riesci a dare voce alle tue emozioni, non avere fretta. Non accontentarti di risposte affrettate e razionali. Fidati di te stesso.
Resta in attesa, in silenzio, in ascolto di te stesso. La risposta ti verrà incontro prima di quanto tu non riesca a credere.
E sarà nel linguaggio semplice dell’inconscio; soggetto, verbo predicato: “io sento questo…”
Senza altri inutili orpelli, congiuntivi, condizionali, elucubrazioni razionali.
“Nel totale silenzio la mente incontra ciò che è eterno” (Krishnamurti).

Saggezza muta

“Ho imparato il silenzio da chi parla troppo, la tolleranza dagli intolleranti, la gentilezza dai malvagi; e, per quanto possa sembrare strano, sono grato a questi insegnanti. La saggezza è la sola ricchezza che i tiranni non possono espropriare” (K. Gibran).

La saggezza nasce dalla elaborazione delle conoscenze e delle esperienze. È la consapevolezza di ciò che ci circonda che ci rende saggi; anche quando tutto volge verso la decadenza e l’intolleranza verso il pensiero libero. Perciò, quando possibile e necessario, preferisco ritrarmi silenziosamente nella mia posizione mentale congeniale:
“Sono altamente asociale e tremendamente socievole. Per questo ascolto tutti e parlo con pochi” (cit).
La saggezza trova il suo miglior amico nel silenzio. Chi sta in silenzio è più bello da ascoltare!

1

Circa l'autore:

Dr. Roberto Calia Psicologo Psicoterapeuta Milano
  Post correlati

Commenti

  1. Giovanni Aru  Aprile 16, 2023

    GRAZIE.

    rispondere

Aggiungi un commento


Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.