Altruismo ed egoismo
“La solidarietà è il sostegno reciproco, il modo in cui ogni parte di un solido è retta e tenuta salda da tutte le altre. Nessuna si ritrova sola nel vuoto.
La solidarietà è quindi la compattezza del corpo sociale, il suo essere massiccio, e ci spiega che la forza di un corpo sta nella sua coesione. Coesione che si esprime innanzitutto nella mutua assistenza, in una fratellanza che scaturisce dalla coscienza di far parte di un Uno.” (Cit.)
La parola solidarietà deriva dal latino solidus (solido). Il “solido” (da cui successivamente “soldi”) era anche una antica moneta d’oro, creata per favorire gli scambi economici. In origine dunque la solidarietà/solidità era caratterizzata dalla parità fra i soggetti.
La solidarietà vera implica il riconoscimento di reciprocità: siamo tutti fratelli, siamo figli dello stesso Cielo. Significa che siamo interessati alla vita e al benessere di tutti, senza alcuna distinzione.
In questa fase di drammatica trasformazione dell’umanità, la solidarietà si è invece trasformata in assistenzialismo, annullando unilateralmente ogni parità e il vincolo di reciprocità. Oggi trionfa la solidarietà “buonista”, che di fatto sancisce l’asimmetria di valore fra chi assiste e chi è assistito. Il valore fra le due parti è asimmetrico e porta inevitabilmente al conflitto fra chi domina e chi è dominato.
La carità è umiliante perché viene esercitata in senso verticale, dall’alto verso il basso. La solidarietà vera è orizzontale e comporta il rispetto reciproco.
È possibile parlare di solidarietà e che “siamo tutti fratelli” in un mondo in cui predomina lo sfruttamento del più forte sul più debole, dei ricchi sui poveri?
La produzione di ricchezza dovrebbe servire per soddisfare i bisogni veri degli uomini, il benessere dell’umanità intera, non all’interesse del Sistema economico-finanziario che, di fatto, è in mano ad una sparuta minoranza che decide le sorti del mondo.
Da regola funzionale, la solidarietà è diventata un fatto morale. Ci si sente a posto con la propria coscienza, dando qualche spicciolo per i “poveracci” (fortunati intanto noi che la beneficienza la possiamo fare!).
Sul piano sociale, impera la politica dell’accoglienza, i nostri politici sono “buonissimi”: vogliono accogliere tutti i poveri del mondo. Non importa che non ci siano le condizioni economiche e materiali per farlo, sia per chi accoglie sia per chi dovrebbe essere accolto.
Questo vanifica in origine ogni possibilità di integrazione, proprio perché fondata su una asimmetria di valore. Chi è “assistito” è portato ad annullare questa “inferiorità”, ricambiando non con la fratellanza, ma con il desiderio di superare lo scarto di valore. Non può che odiare chi gli porge una mano, perché non è vissuta come vera fratellanza.
In tutto ciò non c’è alcuna vera “solidarietà”, ma solo calcolo politico ed economico, contrabbandato per moralismo. Intanto, nei Paesi poveri le cose rimangono tali.
Non mi si venga a dire che con lo sviluppo tecnologico che abbiamo non saremmo in grado di migliorare da subito le condizioni di vita di tutti questi “fratelli”, in tutte le parti del pianeta! Evidentemente non c’è interesse, non c’è la volontà di farlo.
Si preferisce così mantenere intatte le disparità fra gli uomini. Altroché solidarietà! …
Il feticcio della solidarietà
“Mi dite in che giorno si festeggia Santa Falsità? Perché devo mandare gli auguri a un po’ di persone” (Anonimo).
L’imperativo della solidarietà aleggia come un fantasma ingombrante che domina le nostre coscienze e che manipola le nostre menti. Di fronte a questo feticcio non si può non inchinarsi, non si può resistere, tanto è il peso morale che deve sopportare chi eventualmente decidesse di non stare dalla parte dei “buoni”.
Le politiche sociali del nostro Bel Paese sono state fin qui dominate da questo feticcio (adottato a dire il vero anche dalle religioni, oltre che dalla politica, dalla cultura dominante e dagli opinion leader), che ne hanno fatto una bandiera ideologica, un collante sociale per tenere insieme illusoriamente parti sociali inconciliabili, facendole apparire coese.
La maggiore responsabilità di queste “politiche” è quella di aver favorito l’istituzione di un parassitismo sociale diffuso, spacciandolo per altruismo etico. L’universalismo compassionevole (oggi praticato sostanzialmente come generico buonismo altruistico) viene decantato come un valore assoluto, contrapposto all’individualismo, all’identità personale e sociale, visto come “egoistico” e dunque peccato mortale (in chiave politica, come razzismo, sovranismo, o populismo, considerato il crescente malumore popolare).
La concezione morale prevalente dei nostri tempi comporta il “far del bene agli altri” come “dovere”. Il premio per tale “sacrificio” è la ricompensa (narcisistica) che si riceve con la gratitudine dei beneficiati (quando arriva…) e con l’approvazione sociale di tale dedizione.
I soggetti che ricevono la benevolenza dei buoni rimangono di fatto permanentemente debitori nei confronti dei loro benefattori. Questa è la genesi dell’assistenzialismo che si fonda proprio sulla asimmetria e la disparità in origine fra chi fa del bene e chi lo riceve, concependo raramente la possibilità di una reciprocità.
Un eccesso di “maternage” è sempre la tomba della crescita e della libertà.
L’aiuto ai “bisognosi” non dovrebbe mai giungere all’assistenzialismo passivo, perché si pone sostanzialmente come aiuto asimmetrico, impari e senza nessuna prospettiva di vera emancipazione.
Il bisogno viene utilizzato per rendere dipendente l’utente (pessima terminologia per una persona in stato di fragilità!) dalle istituzioni. Così il popolo dei poveri e dei derelitti si è allargato sempre di più.
Al diavolo i professionisti del sociale! Costoro (politici, operatori, volontari) nutrono i propri interessi (come organizzazioni) e il proprio narcisismo (come individui “buoni”!) nell’aiuto incessante verso l’altro, concepito come “mancante”, “de-privato”, “in-potente”. In quest’ottica, che serve alla politica per mantenere sudditi i cittadini e ai cittadini per mantenere pulita la propria coscienza individuale, la solidarietà diviene ipocrisia istituzionale, una solidarietà falsa che rafforza le distanze fra chi ha bisogno e chi no, fra chi sta bene e chi no, fra chi domina e chi è dominato.
Dove è finito il rapporto persona-persona, fondato sulla simmetria e sulla parità?
La solidarietà vera nasce dal riconoscimento della dignità della persona e del suo diritto di autonomia.
Si fonda sul principio di reciprocità, dove l’asimmetria dettata dal bisogno (“ho bisogno di te”) è transitoria e genera una dinamica evolutiva verso la pariteticità (“se ne avrai bisogno, potrò ricambiarti”).
Buonismo malato e sano egoismo
“Ciò che dai è tuo per sempre. Ciò che tieni solo per te è perduto per sempre.”
Né a livello sociale né a livello culturale si comprende minimamente che solo attraverso un “sano egoismo”, è possibile giungere a far del bene e ad amare se stessi e gli altri, non come “dovere” ma come “piacere”.
Un egoismo sano (che sostanzialmente vuol dire rispetto di sé e degi altri e una buona autostima) si contrappone al buonismo malato, perché considera gli altri come persone e non come individui perennemente bisognosi, carenti, incapaci di raggiungere indipendenza ed autonomia.
Questo egoismo maturo, che non riceve sostegno dal riconoscimento altrui ma da se stessi, rappresenta il più vero ed autentico altruismo.
Egoismo ed altruismo sono due facce della stessa medaglia, due elementi essenziali della persona psicologicamente matura, capaci di mettere le persone in relazioni gratificanti ed empatiche.
Avendo sommamente rispetto della propria emancipazione, la Persona considera sacro il proprio spazio vitale, che finisce esattamente dove comincia quello dell’Altro, considerato come altro-da-sé, quindi perfettamente degno del medesimo rispetto.
Il Sé e l’Altro si riconoscono perché inscrivono i propri bisogni e i propri desideri nel medesimo registro.
Questa è la sola possibilità per lo sviluppo della vera solidarietà, in una relazione persona-persona, libera, simmetrica e potenzialmente ricca di potenzialità creative.
La prospettiva di una Società matura, fondata realmente sulla parità e sulla giustizia sociale, deve essere quella di una società fatta di persone indipendenti e di relazioni-fra-persone, non più sudditi dipendenti ed eterodiretti, ma cittadini evoluti.
“L’utopia non è ciò che è impossibile da realizzare, designa invece le resistenze che si frappongono alla sua realizzazione” (cit. da H. Marcuse).
Impegno
“Gesù non si trova al termine dei nostri ragionamenti, ma al termine del nostro impegno” (V. Messori).
Amore di sé e amore dell’altro sono dinque due facce della stessa medaglia. Non si può amare gli altri senza amare se stessi, e viceversa.
Persone “speciali” sono quelle che si impegnano nel sociale, che fanno della propria abnegazione la base per un altruismo maturo, per una solidarietà autentica fatta di rispetto e reciprocità.
Sono le persone che fanno del bene senza aspettarsi niente da nessuno.
Né elogi né applausi.
Non come i tanti “professionisti” della falsa solidarietà, che si riempiono la bocca di melensa retorica, di generico buonismo, aspettando che siano gli altri a fare per primi, e loro a seguire, così tanto per lavarsi la coscienza, per sentirsi “buoni” con le iniziative (e le tasche) degli altri!
Sostegno e reciprocità
“Se vuoi costruire una nave non devi per prima cosa affaticarti a chiamare la gente a raccogliere la legna e a preparare gli attrezzi. Non distribuire i compiti, non organizzare il lavoro. Risveglia prima negli uomini la nostalgia del mare lontano e sconfinato. Appena si sarà risvegliata in loro questa sete, si metteranno subito al lavoro per costruire la nave” (A. de Saint-Exupery).
Quando si vuole aiutare qualcuno bisogna sostenerlo (sus-tenere, tenere in alto), incoraggiarlo a stare in piedi da solo, ma non sostituirsi a lui. E mentre lo si sostiene, è necessario stimolare la sua naturale tendenza all’autonomia.
Come il tutore di un alberello, che serve a ripararlo dal vento e dalle intemperie fino a quando non diventa saldo e robusto.
Come abbiamo detto, l’eccesso di “maternage” distrugge ogni creatività, diventa assistenzialismo, inibisce la crescita personale e accentua il bisogno di dipendenza.
Ecco perché aiutare qualcuno non è sempre semplice. Richiede l’attenzione degli interessati (chi aiuta e chi riceve aiuto) a dare centralità alla dignità della persona, che ha le più solide fondamenta proprio nell’indipendenza e nell’autonomia.
È più semplice per chi vuole aiutare (che è in posizione più favorevole) sostituirsi del tutto all’altro e fare tutto “al posto suo”, per “il bene dell’altro”.
Così facendo gratifica certamente il proprio altruismo (quando non il proprio narcisismo) ed accresce la propria autostima.
Ma rischia di innescare una risposta ambivalente dell’altro, che prima o poi rivendica la sua indipendenza e vuole riscattarsi dall’offesa subita per aver dovuto accettare di essere aiutato.
Su questa ambivalenza si spiega la mancanza di gratitudine di chi riceve aiuto e spesso “sputa” nel piatto di chi gli ha offerto (spesso in perfetta buona fede) sostegno.
Non deve mai esserci un rapporto top-down, fra chi è “superiore” e chi è “inferiore”.
L’asimmetria deve essere solo situazionale, riguardare cioè il momento della necessità, e non inficiare il senso di parità umana che è il fondamento stesso del “prendersi cura dell’altro”
La solidarietà vera è data dall’incontro di due persone di pari dignità, che insieme tendono alla reciprocità della relazione.
La capacità di chiedere aiuto, quando è necessario, è un aspetto di una identità matura che non vanifica affatto il suo valore personale.
Essere forti non significa dover sempre fare da soli, ma avere la forza di chiedere aiuto e provare a darne quando è richiesto.
Non bisogna mai dare per scontata questa capacità nelle persone in stato di bisogno, ma stimolarla.
Le differenze fra l’assistenzialismo di vecchio stampo (ancora presente in molte modalità dei pubblici servizi) ed un vero Welfare alla Persona si rifanno a questa netta distinzione culturale.
“La civiltà ebbe inizio quando per la prima volta l’uomo scavò la terra e vi gettò un seme” (K. Gibran).
Riprendendo la saggezza dei vecchi proverbi, quindi non regalare mai un albero, ma un seme. In ogni seme c’è tutta la potenza dell’albero futuro.
Per far crescere l’albero bisogna piantare il seme e coltivare la pianta, con l’incertezza si vederla germogliare e crescere.
Solo puntando sulle potenzialità umane è possibile raccogliere i frutti di una Persona matura, che così può esplodere in azioni concrete tutta la sua creatività.
Nel rispetto della dignità e della autonomia di ogni essere umano, il sostegno si esprime nella reciprocità e nella parità, valorizzando come àgape il polo positivo della dedizione e della cura.
“Altruismo ed Egoismo al livello più alto s’incontrano, quando il mio massimo interesse coincide con il bene dell’Altro. L’Amore ritrova la sua suprema armonia, secondo principi di parità, reciprocità e simmetria” (R. Calia)
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Circa l'autore:
Dr. Roberto Calia Psicologo Psicoterapeuta Milano