Attaccamento e distacco
“Dovete rinunciare alla vita che avete per ottenere la vita che vi sta aspettando”
(J. Hillman)
Nella vita ogni possibilità di divenire passa necessariamente attraverso un cambiamento. (Sul cambiamento puoi leggere anche qui Cambiamento).
Cambiamento che quando è evoluzione, porta sempre ad una trasformazione, ad un passaggio di stato.
Cambiare comporta l’accettazione che qualcosa della situazione in cui siamo debba essere modificata.
“Se niente cambi, non cambia nulla.”
Eppure, anche quando stiamo male o siamo insoddisfatti non ci è facile cambiare.
Perché?
Cambiare, andare oltre, porta inevitabilmente con sé la rinuncia a qualche aspetto della nostra vita, presente o passata, ma soprattutto implica il distacco definitivo da qualcosa che non si attaglia più al tratto di vita che stiamo ora transitando: sogni, desideri, aspettative, rapporti, prospettive inattuali.
Spesso l’attaccamento smette di essere un legame, positivo e funzionale, e diventa un vincolo limitante.
“Distacco non significa che tu non devi possedere nulla. Significa che nulla dovrebbe possedere te.” (A. Talib)
Mentre per l’Occidente, l’attaccamento, affettivo o materiale, alle cose e alle persone, è considerato positivamente, dalla filosofia orientale l’attaccamento alle cose terrene è visto con disprezzo.
È auspicato il vuoto assoluto, il distacco che, nella estrema vetta, è rappresentato dal Nirvana.
Per noi occidentali, questo vuoto è identificato con la follia (schizofrenia), con la separazione dalla realtà (schizo significa, appunto, separato).
Tra queste due concezioni esiste una terza possibilità, che le comprende entrambe.
È quella di una superiore posizione mentale in cui l’individuo ha saputo affrontare il “senso” del vuoto e l’angoscia della “morte mentale”, rappresentati dall’allentamento dei legami con la realtà, Oltrepassando il rischio della perdita dell’identità e dell’annullamento di sé, può allora ritornare al mondo reale, alla relazione con gli “oggetti” (persone, cose, desideri, progettualità, ecc.), così come li conosciamo.
Continua però a mantenere un “giusto” investimento mentale verso gli oggetti, modulando il “pathos” (sentimento) e la distanza nelle relazioni.
Ha imparato a misurare il coinvolgimento (che arriva fino alla “fusione simbiotica” tipica dell’innamoramento) e il disinvolgimento (ossia il “ritiro schizoide” nel nucleo più profondo del Sé, dove è possibile accedere in piena consapevolezza a tutte le potenzialità generative del vero Sé). Ha finalmente sanato la frattura “verticale” fra il Sé infantile (non più vissuto come fragile e impaurito) e il Sé adulto (sentito non più come facciata, “maschera”, non completamente autentico e perciò frammentato e precario). È ora un individuo più saldo e coeso, che ha “bonificato” il suo passato e può guardare in prospettiva il futuro con fiducia, avendo ritrovato la gioia del presente.
Questa posizione ideale (non idealizzata) è quella della Persona (D. Lopez). È una condizione emotivo-affettiva e relazionale che non si raggiunge una volta per tutte, ma va costantemente perseguita attraverso una equilibrata tensione relazionale fra il Sé, il suo mondo interno e il mondo esterno.
È evidente che si tratti di una prospettiva sempre in divenire a cui dovremmo guardare e verso cui tutti dovremmo tendere.
Divenire
“Esistere è cambiare; cambiare è maturare; maturare è continuare a creare se stessi senza fine.” (H. Bergson)
Il divenire è dunque una condizione in sé positiva, oltre che ineludibile. Eppure tutti abbiamo paura del cambiamento. Temiamo più il dover lasciare qualcosa, che l’abbracciare qualcos’altro.
Cambiare è vissuto come diventare “diversi” da ciò che siamo, perdere la propria identità, il proprio status.
In realtà il divenire altro non è che il mutamento della nostra forma, del modo in cui ci mostriamo nella nostra storia di vita. La sostanza (noi, il nostro Sé) è sempre la stessa, permane lungo tutto il nostro percorso dalla nascita alla morte. E anche oltre.
Sta solo a noi dunque accettare o meno il cambiamento. Se lo accogliamo, possiamo sperare di orientarlo secondo i nostri desideri.
La differenza sta nella coscienza che abbiamo di questo processo, nella consapevolezza profonda con cui sostiamo nel presente e lo accompagniamo dinamicamente verso il futuro.
Qualunque gioia o dolore, qualunque conseguenza questo possa comportare.
Lasciar andare
“Tu non hai bisogno di fingere che sei forte, non devi sempre dimostrare che tutto sta andando bene, non puoi preoccuparti di ciò che pensano gli altri, se ne avverti la necessità piangi, perché è bene che tu pianga fino all’ultima lacrima, poiché soltanto allora potrai tornare a sorridere” (P. Coelho).
Al contrario di ciò che ci hanno insegnato, e che comunemente tendiamo a fare, non sempre è necessario “resistere” con ogni mezzo, “stare in piedi” a tutti i costi, non piegarsi per non spezzarsi.
Rafforzare le nostre difese, una tenuta strenua, raccogliendo tutte le forze e tenendo insieme tutte le risorse di cui disponiamo, rischia di farci arrivare al limite del crollo, fisico e psichico.
La convinzione tutta occidentale, fatta propria anche dalla psicologia contemporanea, è che l’equilibrio mentale sia fondato sul “potenziamento” dell’Io, sull’idea che rafforzando le difese psicologiche la nostra tenuta emotiva migliori.
Al contrario la psicologia orientale fa del principio del “lasciare andare” un elemento fondamentale per raggiungere la serenità e un maggior benessere psicofisico.
In questa prospettiva lasciare andare non significa perdere interesse verso la realtà, ma smettere di credere di poter avere il pieno controllo sulle persone, sulle cose e sulle situazioni; non significa fregarsene, ma affidarsi più all’esperienza degli eventi, che al rimuginio dei pensieri.
Significa rinunciare al “dovere” di fare sempre tutto con efficienza e all’utilità di perseguire effettivamente questa “pretesa”.
Lasciar andare non è abdicare ai propri interessi e subire la volontà degli altri, ma abbandonare l’angoscia anticipatoria di non avere la forza di affrontare le cose e assecondare invece che le cose avvengano, senza che necessariamente si rivoltino contro di noi, curando solo di rimanere semplicemente se stessi.
“Lasciare andare non è imporre nuove catene, ma permettere alla libertà di ognuno di esprimersi.
Lasciar andare non è ancorarsi al passato, ma vivere pienamente un nuovo futuro.
Lasciar andare non è un atto egoistico, ma è il coraggio di scoprire il nuovo che si svela di fronte a noi.
Lasciar andare non è di domani, ma è di un oggi che aspetta di essere vissuto.
Lasciar andare libera, purifica, migliora. Lasciare andare è accogliere la gioia” (S. Littleword).
Anche secondo la mia esperienza questo orientamento oggi è più proficuo di crescita personale e di buoni esiti terapeutici.
Secondo tale approccio la felicità non si raggiunge per “accumulo” di elementi esterni (beni, relazioni, potere, ecc.), o interni (più difese psicologiche), ma abbandonando progressivamente le nostre pretese di “controllo” su tutti gli aspetti della vita (la nostra e quella degli altri).
In ultima analisi ciò richiede di rinunciare all’idea di perfezione che inconsapevolmente (e spesso ossessivamente) perseguiamo.
Tenere a tutti i costi è lo sforzo “epico” quotidiano nel quale siamo impegnati, un’impresa inutile ed illusoria, che ci costa fatica, rinunce e il ricorso a “puntelli”, più o meno adeguati (ad es. uso di farmaci, droghe, stimoli “tossici” che alla lunga, in un vortice involutivo, non portano che malesseri, disagio, disturbi psicosomatici, sofferenza).
Mettendo insieme la saggezza dei due mondi, quello occidentale e quello orientale, possiamo prendere consapevolezza che lasciare andare significa accettare che le cose si muovano liberamente anche senza il nostro intervento, che seguano il loro corso, fintanto che la direzione degli eventi ritrovi il proprio senso. Il nostro potere (e dunque il diritto/dovere di esercitarlo) è quello di rapportarsi agli eventi e alle vicende della vita, rispettando quando più possibile i nostri bisogni, i nostri desideri e le nostre aspettative.
“Per essere sereni, bisogna conoscere i confini delle nostre possibilità, e amarci come siamo” (R. Battaglia).
Un minimo di serenità dunque non ci è dato naturalmente, per diritto naturale.
Dobbiamo conquistarcela con fatica, spesso facendo a gomitate con chi ci sta vicino; non è per nulla scontato che chi ci vuol bene, sia disposto a “lasciarci in pace”.
Per essere infelici non occorre far niente, il negativo, il male ci prende rapidamente.
Questa è la prima regola essenziale da imparare, che contrasta fortemente con i modelli educativi che ci hanno inculcato: “stai fermo, fa’ il bravo, stai al tuo posto…”.
L’idea era che stando fermi, dopo arrivava il premio! Nulla di più falso, specie di questi tempi da “far west metropolitano” in cui viviamo.
Per essere felici, sereni, dobbiamo darci da fare. Che vuol dire essere felici?
Tralasciando la felicità come stato estremo, episodico e transitorio determinato da qualche specifico evento nella vita (qualcosa dunque che ci accade da “fuori”), essere felici in modo più stabile e continuativo coincide di fatto con uno stato di serenità e appagamento interiore che ci accompagna come condizione di fondo nella quotidianità.
È la capacità di provare gioia nella semplicità e nelle piccole cose, non la beatitudine e l’estasi che non appartengono alla quotidianità.
La gioia è l’unità di base della felicità (se non inizi da uno non puoi arrivare a cento!).
È una condizione che ci accade “dentro”, è influenzata certamente dagli eventi reali esterni, ma non ne è condizionata o determinata.
È uno stato d’animo, una predisposizione emozionale e relazionale che parte da noi verso gli altri, meno dagli altri verso di noi.
Finché non impariamo (noi, non gli altri!) ad accettarci e non costruiamo un dialogo costante e profondo con noi stessi, non troveremo mai la serenità a cui aneliamo, la pace interiore e la capacità di affrontare “le tempeste della vita”.
La serenità, che è alla base di una stabile condizione di pace interiore, implica da parte nostra la necessità di abbandonare tre bisogni che ci accompagnano nella frenesia della quotidianità: il bisogno di tenere tutto sotto il nostro controllo, di avere potere su tutte le cose della nostra vita (un’illusione tragica!); il bisogno di essere costantemente approvati, confermati, apprezzati dagli altri: una debolezza narcisistica che paghiamo a caro prezzo con una drammatica ed eterna insoddisfazione; ed infine la tendenza a giudicare tutto e tutti, noi stessi e gli altri. Il giudizio (e il pregiudizio che ne è alla base) ci dà l’illusione di capire tutto con la ragione e quindi di avere potere sugli altri e sul mondo esterno.
Controllare tutto, giudicare sempre, aspettarsi l’approvazione di tutti: i tre capisaldi di una missione impossibile!
Perciò, lascia andare! Rilassati!
Per fortuna, non sei tu Dio e nessuno (se non tu stesso) ti chiede di essere perfetto! Molla la presa prima che sia troppo tardi, evita il rischio di cadere in pezzi, esausto e stremato, proprio dall’impegno gravoso (ed illusorio) di tenere in piedi il Mondo, che ti sei inconsapevolmente assunto.
Il TUO mondo, quello che tu stesso hai creduto debba essere il mondo, non la Vita com’è, nella suo vero e unico fine, che è quello di “fare esperienza della vita stessa” e di “allargare la consapevolezza di se stessi nella relazione con gli altri”, secondo la sola prospettiva possibile che è quella dell’Amore.
Bisogna quindi imparare a “lasciarsi andare” e a lasciare andare le cose, chiudendo quel che va chiuso: rapporti usurati, amori perduti, situazioni dolorose.
Porte e finestre aperte verso il passato, lasciano passare spifferi poco salutari.
Se li lasciamo andare per la loro strada, ci rendiamo mentalmente aperti e liberi per qualcos’altro (B. Hellinger).
Rinunciando alla nostra presunzione narcisistica, secondo la quale “lasciarsi andare” significa essere deboli, inadeguati o perdenti, possiamo consentirci di “mollare la presa”, sperimentando di fatto una maggiore libertà interiore ed una maggiore autenticità nel rapporto con noi stessi e con gli altri.
Dobbiamo rinunciare alla pretesa assurda di voler essere perfetti, capaci e sempre al massimo che ci porta a dover controllare tutto e a non lasciare mai andare nulla. Un’illusione che ci porta ad uno stato cronico di “imminente crisi di nervi” e che prima o poi paghiamo a caro prezzo con un inevitabile “crollo”.
Al di là di questa illusoria pretesa, lasciare andare è necessario proprio per non rischiare di “cadere in pezzi”, esauriti e stremati, che paradossalmente è proprio la stessa paura che ci assilla e che ci impedisce di farlo.
Il problema vero da affrontare non è il controllo in sé, che è solo un sintomo, ma l’idea di perfezione, che si è insinuata fin da bambini dentro di noi per contrastare un sottostante sentimento di inadeguatezza o, peggio ancora, di non valere abbastanza.
Lasciare andare diviene cosi la capacità indispensabile per ritrovare uno stato mentale più sereno e più autenticamente aperto alla vita. Ci consente inoltre di prendere la giusta distanza delle cose per guardarle in una prospettiva più realistica e più congrua alla nostra vita.
“Lasciarsi andare” è all’estremo opposto della paura di crollare, stremati dal nostro assillo del dovere e dall’obbligo di resistere, di essere forti a tutti i costi.
È una condizione molto più vicina ad una vita più serena e ricca, dove possiamo sperimentare insieme le gioie, l’entusiasmo ma anche le paure, i blocchi emotivi ed i vuoti affettivi.
Lasciarsi andare diviene cosi la capacità indispensabile per ritrovare uno stato mentale più fiduciosamente aperto alla vita.
Per ritrovare così finalmente il coraggio di vivere autenticamente, che non è assenza di debolezze, ma presenza di resilienza, ossia della vera forza di ri-esistere, nonostante la compagnia delle paure, delle prove e delle sconfitte cui la vita inevitabilmente ci espone.
Il pathos della distanza
”La distanza a volte consente di sapere che cosa vale la pena tenere e che cosa vale la pena lasciare andare” (L. Del Rey).
Uno dei segreti fondamentali della vita è saper mantenere la “giusta” distanza dalle cose e, soprattutto, dalle persone. La capacità di mantenere una equilibrata distanza fra noi e gli altri, fra mondo interno e mondo esterno, fra l’inesauribilità delle risorse emotive interiori e la penuria delle cose del mondo, è assolutamente cruciale per la nostra salute mentale. Ciò che è “giusto” ovviamente non è mai assoluto, non può valere per tutti: è sempre individuale e situazionale (vale cioè in un contesto specifico e personale).
La distanza si misura dal “pathos”, dal sentimento (di piacere, gioia o di disagio, sofferenza), che proviamo verso le cose e le persone. Il “sentire” (con le emozioni e non solo con i sensi) può aiutarci a capire la forza dei sentimenti messi in campo in una relazione. La capacità di sentire quando avvicinarci (e quanto!), e quando invece è necessario ritrarci un po’ indietro per vedere l’altro come si dispone nei nostri confronti, è essenziale.
È il “pathos della distanza”, quella capacità tutta intuitiva che ci orienta flessibilmente a modulare il nostro coinvolgimento nelle vicende interne (pensieri, sentimenti) e quelle esterne (rapporti, relazioni, interazioni con gli altri e con le esperienze del mondo). Imparare a modulare il “pathos della distanza è una “competenza emotiva” cruciale in ogni relazione.
È il funzionamento di questa istanza preconscia che ci dice quando è opportuno ritirarsi in se stessi, difensivamente ma in modo sano, per recuperare le energie esauste dalle battaglie quotidiane, attingendo all’unica fonte certa che è rappresentata dal nucleo più profondo di sé, presente dentro ognuno di noi. Questo nucleo, questa parte essenziale di ciascun individuo, è lo “spazio mentale” più segreto della nostra intimità. È il nucleo privato del Sé, la fonte originaria del nostro Essere, il “luogo” privilegiato della nostra energia psichica e della creatività.
La psicoanalisi lo definisce il nucleo schizoide del Sé, che – nonostante tanta psichiatria non lo comprenda proprio – è del tutto sano ed anzi essenziale per assicurare un apporto dinamico e propulsivo alle altre parti della nostra identità. Nelle diverse tappe dello sviluppo individuale, se il bambino è stato oggetto di cure “sufficientemente adeguate” (Winnicott), questa parte diviene il nucleo essenziale della Persona, la “base sicura” (Bowlby) cui il bambino prima e l’adulto poi, potrà attingere autonomamente sia per proteggersi, sia per esprimere la propria creatività.
Quando le nostre vicissitudini infantili non sono state favorevoli, a causa di un deficit nell’amore primario (della madre prima e del padre dopo), questo “piccolo mondo interno” funziona invece come “rifugio regressivo protettivo” per un Sé percepito come fragile e impaurito. Smette cioè di essere fonte di benessere e creatività, per diventare il “rifugio privato” dove il nostro bambino interiore, ferito, infelice e piagnucoloso, si ripiega difensivamente da quelle che lui percepisce come continue minacce esterne alla sua incolumità psichica. Il mondo esterno, da possibile scenario di rappresentazione delle proprie potenzialità, è diventato proiettivamente un teatro pieno di pericoli per la propria fragile coesione e integrità.
Riparare questo “difetto fondamentale” non è facile, ma è sempre possibile. Con molta pazienza ed empatia, bisogna conquistare la fiducia del bambino impaurito, per stanarlo ed accompagnarlo, mano nella mano, ad affacciarsi alla vita. Un gradino alla volta può risalire dalla stanza segreta dove si è rifugiato, nella quale nonostante tutto, non trova pace.
Impara così che il mondo non è così tanto minaccioso, non più di quanto non lo sia per tutti, e che i “mostri” che vedeva dappertutto sono in realtà compagni della medesima avventura, che hanno semplicemente imparato prima di lui che non c’è niente di “magico” da imparare che ti possa dare sicurezza una volta per tutte.
Dobbiamo saper creare un accesso dinamico a questo nucleo, sia in “entrata” (quando vogliamo ripiegare nel nostro nido sicuro, per proteggerci e attingere alla nostra fonte originaria), sia in “uscita” (quando ritemprati rientriamo nel mondo esterno).
“Di tanto in tanto, bisognerebbe prendersi una giornata libera dalla vita” (S.J. Lec).
Dunque, né troppo distanti da non sentire più il rapporto con l’altro, né troppo vicini da essere invasi dal mondo esterno. Il “pathos della distanza” consente così di comprendere che cosa vale la pena tenere e che cosa deve essere lasciato andare.
Nei rapporti d’amore non diamo mai troppo a chi non è disposto a fare altrettanto, ma non sottraiamoci a donare per primi quando ne abbiamo l’opportunità, in un contesto relazionale che si presenta come un contenitore comune in cui entrambi i partner sono capaci di dare ed avere con la medesima intensità. Relazioniamoci emotivamente “a fasi alterne”, concedendo il tempo all’altro di camminare al nostro stesso livello.
Se non lo facciamo, se non riusciamo a modulare la distanza emotiva, ci ritroveremo frustrati e delusi a chiederci come mai l’altro non ricambia le nostre attenzioni, la nostra dedizione, il nostro amore. Se l’altro è distante, vuol dire che è più disposto a prendere che a dare, forse solo in quella fase o come tendenza del rapporto, ora e per sempre. Chi non cammina al nostro fianco (né davanti, né dietro), evidentemente non è pronto ad un rapporto reciproco, simmetrico e paritario con noi.
Pazienza! Siamo avvertiti. Meglio capirlo subito, prima che sia troppo tardi. Per entrambi.
Nella vita non c’è trucco né inganno: ognuno impara a proprie spese ad affrontare la vita, contando essenzialmente su se stesso. Nessun maestro, nessun guru, nessun terapeuta ti insegna altro che questo.
“Se incontri per strada il Buddha uccidilo”, dice un detto zen: il segreto è che non c’è nessun segreto da imparare. Una volta accompagnato fino all’angolo della strada, toccherà a te svoltare e proseguire il tuo cammino, con la fiducia che di fronte agli ostacoli e alle difficoltà sarai in grado di trovare il coraggio necessario per sormontare ogni paura.
Perfezione e controllo
“Ci sono momenti nella vita in cui l’unica alternativa possibile è perdere il controllo” (P. Coelho).
La tendenza a controllare maniacalmente la realtà è un meccanismo di difesa che serve illusoriamente a proteggerci dalla convinzione opposta sottostante di non riuscire a farcela, di essere fragili e di non riuscire a mantenere i nostri impegni.
Come una cattiva abitudine, è un automatismo inconscio che paradossalmente sfugge alla nostra coscienza e al nostro controllo.
I disturbi del sonno sono uno strascico notturno di questa modalità caratteriale.
“Che cos’è l’insonnia se non la maniaca ostinazione della nostra mente a fabbricare pensieri, ragionamenti, sillogismi e definizioni tutte sue, il suo rifiuto di abdicare di fronte alla divina incoscienza degli occhi chiusi o alla saggia follia dei sogni?” (M. Yourcenar)
A seconda dell’entità del disturbo, tutto può diventare oggetto di controllo, le cose che pensiamo, i nostri sentimenti, le nostre emozioni, le nostre relazioni, le nostre azioni.
Il meccanismo “mortifero” sottostante è: “siccome non mi fido, degli altri soprattutto ma forse neanche di me, ho paura che le cose vadano male, e allora devo stare attento, controllare tutto e in tutti i dettagli”…
Un lavorio logorante e soprattutto inefficace, perché è impossibile “tenere” tutto sotto controllo, non è in nostro potere.
Distacco e scelte
“Solo chi ha il coraggio di scrivere la parola fine, può trovare la forza per scrivere la parola inizio”. (Detto Zen)
Prima o poi arriva dunque il momento di lasciare. Il momento di rischiare.
Rinunciare a maestri, dottori, guru o profeti. Non aspettare più di essere pronti.
Non attendere ancora di essere più esperto, più preparato. Non lo saremo mai abbastanza!
“Se incontri per strada il Buddha, uccidilo”, recita un antico detto zen.
Che significa sostanzialmente che devi fare a meno di tutti, devi contare su te stesso.
Se rinunciamo a tentare di guidare le cose e quelle si allontanano da noi, lasciamole andare.
Molliamo la presa. Bisogna lasciare andare le cose, chiudendo quel che va chiuso.
Rapporti usurati, amori perduti, situazioni dolorose. Porte e finestre aperte verso il passato, lasciano passare spifferi poco salutari.
“L’istante magico è quel momento in cui un sì o un no può cambiare tutta la nostra esistenza.” (P. Coelho)
Ogni decisione assunta, la scelta fatta nel presente, ha la potenzialità di cambiare il futuro, ma comporta l’accettazione del distacco e della perdita.
Per questo troppo spesso ci blocchiamo di fronte ad una scelta, lasciando poi ad altri di scegliere al posto nostro, di orientare per noi il nostro cammino.
Non facendo scelte (procrastinando in avanti), si ha l’illusione di non dover lasciare niente.
Per paura di perdere qualcosa, conservando la pretesa di poter tenere tutto, non decidiamo.
“Le decisioni devono essere prese con coraggio, distacco e talvolta con quella dose di follia che conduce il passo al di là dei propri limiti”. (P. Coelho)
Così di fatto, non scegliendo al momento opportuno, ci esponiamo a continue rinunce.
Inconsapevolmente abbiamo comunque scelto di far vincere la paura!
La paura delle decisioni
“L’incapacità di fare le proprie scelte genera un male di vivere.” (M. Levy)
Sembra scontato sul piano razionale, ma non lo è affatto dal punto di vista mentale: scegliere comporta dover abbandonare definitivamente l’illusione di poter avere tutto. Ogni cambiamento implica infatti la necessità di lasciarsi dietro qualcosa.
Ecco perché ci è difficile scegliere, tendiamo a rimandare, facciamo fatica a prendere decisioni. Scegliere una strada comporta necessariamente di dover rinunciare alle altre alternative possibili. Ad un bivio non puoi prendere contemporaneamente le due direzioni.
“Lungo i bivi della tua strada incontri le altre vite, conoscerle o non conoscerle, viverle a fondo o lasciarle perdere dipende soltanto dalla scelta che fai in un attimo. Anche se non lo sai, tra proseguire dritto o deviare, spesso si gioca la tua esistenza e quella di chi ti sta vicino” (S. Tamaro).
Una certa dose di riflessione è necessaria per fare le scelte più opportune, in quella specifica occasione e in quel dato momento; un eccesso di ponderazione, il continuo rimuginio, diventano però limitanti, perché ci portano a rinviare, a procrastinare ogni decisione.
Il dubbio naturale si trasforma in blocco.
“Quando davanti a te si apriranno tante strade e non saprai quale prendere, non imboccarne uno a caso, ma siediti e aspetta.Respira con la tua stessa profondità fiduciosa con cui hai respirato il giorno che sei venuto al mondo.Senza farti distrarre da nulla, aspetta, aspetta ancora, stai fermo in silenzio e ascolta il tuo cuore. E quando poi ti parla alzati e va’ dove lui ti porta, va’ dove ti porta il cuore” (S. Tamaro).
La guarigione dell’uomo dalla “trappola” dell’infelicità, che consiste paradossalmente nella ricerca compulsiva della felicità a tutti i costi, non può avvenire senza sofferenza, perché comporta comunque il lasciar andare qualcosa e dover affrontare qualche perdita: il distacco da persone, oggetti oppure da ciò che non si attaglia più con la nostra realtà interna o esterna, con le nostre intenzioni e le nostre aspettative.
Allo stesso modo, sul piano sociale nessun progresso umano è possibile senza un vero cambiamento, una discontinuità con il passato.
Ogni scelta, ogni conquista, che sia qualcosa di materiale oppure affettivo o relazionale, porta con sé inevitabilmente di fare i conti con la “separazione”. Anche quando si deve scegliere qualcosa di bello. Se scelgo quella cosa, un oggetto, una persona o una azione, devo necessariamente rinunciare ad altre cose, separarmi dall’idea di quelle cose, che sono alternative, o in contraddizione. Una perdita, qualche volta transitoria ma più spesso definitiva, che stentiamo ad accettare.
Di fronte ad una scelta diventiamo perciò incerti, ci assalgono ansie e timori.
“Ai più importanti bivi della vita, non c’è segnaletica.” (Ernest Hemingway)
Rimaniamo così fermi, sospesi nel dubbio, sperando di non dover scegliere nulla, non separarsi da niente. Non scegliere, a livello inconscio rappresenta la pretesa illusoria di non voler rinunciare a nulla.
Rimanendo nella convinzione inconscia di poter avere tutto (tipica della onnipotenza magica del bambino), si corre il rischio estremo di non avere niente.
Non è solo la paura del nuovo che ci blocca, ma il distacco dalle nostre certezze presenti; anche quando abbiamo una vita insoddisfacente, l’equilibrio precario che faticosamente teniamo in piedi, in quanto familiare e conosciuto, ci appare comunque più rassicurante.
L’idea di doversi separare e dire addio per sempre a qualche aspetto del nostro mondo interno o esterno ci suscita angoscia e turbamento, crea in noi resistenza.
“Sentimenti quali la delusione, la confusione, la rabbia, il risentimento, la gelosia e la paura, lungi dall’essere condizioni negative, ci mostrano con chiarezza ciò da cui non siamo ancora capaci di distaccarci” (P. Chodron).
È dunque la paura di perdere ciò che abbiamo che ci impedisce di scegliere. Non fare scelte, continuando a pensare che le faremo dopo, in un ipotetico tempo migliore, procrastinare sempre, a livello inconscio rappresenta la pretesa di non voler rinunciare a nulla.
Rimanendo nella convinzione di poter avere tutto, si rischia di fatto di non avere nulla. L’illusione di non perdere niente, si trasforma così nella rinuncia alle cose che desideriamo.
Solo accettando il distacco dal “vecchio” può finalmente irrompere il “nuovo”nella nostra realtà.
“In questo mondo ci sono tre tipi di persone: quelli che fanno succedere le cose, quelli che guardano le cose accadere e quelli che si chiedono che cosa è successo. Noi tutti abbiamo una scelta. Tu puoi decidere quale tipo di persona vuoi essere” (M.K. Ash).
Evitando, procrastiniamo le decisioni per paura, il risultato è scontato in partenza. Rimandando scelte e decisioni, non affrontando il distacco, in realtà ci condanniamo a privarci di una nuova opportunità.
Una possibilità che non cogliamo è una esperienza non compiuta, che ci espone a futuri rimpianti e nostalgie.
Nostalgia
“E se un giorno volessi tornare a casa, con che mezzo ci tornerei. E la mia casa dov’è? Da dove posso iniziare a cercare la mia casa, nelle mie abitudini giornaliere, o dove vivo ora? Come posso fare per sapere chi sono. Devo forse mettermi in contatto con la mia anima, per trovare casa mia e me stesso?” (Horion Enky).
La nostalgia è il riemergere di un ricordo che ci crea dolore, un senso di struggimento, di perdita, un acuto sentimento di distacco o di rimpianto. Ma il suo riemergere non è solo la mera rievocazione di emozioni ed esperienze passate. La sua irruzione nel presente porta con sé anche tutta la potenzialità di rivivere quelle emozioni.
“Quando ti viene nostalgia non è mancanza. È presenza di persone, luoghi, emozioni che tornano a trovarti” (E. De Luca).
La nostalgia non è dunque soltanto la sortita di un ricordo struggente della nostra vita. Non è solo un rigurgito del passato. È il segno iniziale di un bisogno di rinnovamento.
È l’espressione di una potenzialità sopita che si risveglia; un’energia che spinge per rielaborare quel passato e rivivere nel presente emozioni e sentimenti, in una analoga ma nuova esperienza. È la storia che ritorna. È la rinascita del desiderio che chiede semplicemente di essere colto.
Quando ti assale la nostalgia, allora, non guardare indietro, non vuole semplicemente dire che ti manca qualcosa del passato. Non è solo la sofferenza provocata dal desiderio inappagato che vorrebbe tornare indietro.
La nostalgia ti ricorda che quel “qualcosa” è ancora vivo dentro di te, è ritornato e si ripropone per il futuro. È il segno di un ritrovato desiderio e della prospettiva di rinnovamento.
È il monito di una nuova opportunità: “un altro giro di giostra”. È l’occasione presente di transitare il passato verso il futuro.
Ecco perché questa possibilità deve essere colta oggi. Valorizzando e vivendo appieno il presente, possiamo ripensare e fare esperienza del passato, e concepire il futuro come declinazione nel tempo delle nostre più vere e profonde aspirazioni.
È l’occasione per rimettere ordine alle nostre priorità, affrontando il rischio inevitabile di dovere abbandonare per sempre un pezzo del nostro passato e scegliere liberamente il nostro destino.
Adesso
“La vita non è una gara ma un viaggio da assaporarsi in ogni suo passo lungo il percorso. Ieri è storia, domani è mistero e oggi è un dono: è perciò che lo chiamiamo Presente” (B. Keane).
Il posto e l’ora giusti per agire, per fare qualcosa che riteniamo importante, per vivere e transitare la vita, per ricominciare e riprendersi la vita, per raddrizzare qualcosa che non va, per cambiare sono QUI ed ORA. Esattamente dove sei ADESSO, non altrove, non domani. L’adesso è l’unico luogo, il solo tempo, in cui hai il potere di agire.
Nulla è mai perso per sempre, ma il tempo terreno non ritorna e scandisce inesorabilmente il suo passaggio. Procrastinare ancora, può significare perdere un’altra opportunità, forse l’ultima.
E quel che è peggio, servirà in ogni caso ad aumentare i rimpianti futuri.
Distacco e rischio
“Se dovessi darti un consiglio, ti direi: non lasciarti intimidire dalle opinioni altrui, poiché solo la mediocrità cerca conferme. Affronta i rischi e fa quello che desideri.” (P. Coelho)
Quello che accade nella nostra vita è il riflesso di quello che pensiamo, desideriamo, progettiamo e realizziamo (cioè rendiamo reale), seguendo le nostre più autentiche aspirazioni.
Se prevale la paura, otterremo esattamente tutto ciò che vi è connesso: angoscia, negatività, rinunce. Se non decidiamo di prendere in mano, di assumerci la responsabilità e il rischio di orientare il corso della nostra vita, saranno gli altri che decideranno al posto nostro.
La tua vita andrà secondo strade e scelte che non sono tue.
Ciò che paventava la paura, il rischio di fallire diventa reale: ha vinto la paura!
“La vita è un processo in cui si deve costantemente scegliere tra la sicurezza (per paura e per il bisogno di difendersi) e il rischio (per progredire e crescere). Scegli di crescere almeno dieci volte al giorno” (A. Maslow).
Il rischio peggiore della nostra esistenza terrena è proprio quello di “star fermi”, di lasciar trascorrere la vita, aspettando che succeda qualcosa.
Con molto ritardo e grandi rimpianti ci accorgeremo che, mentre aspettavamo qualcosa dalla vita, era la vita che aspettava qualcosa da noi…
L’esito drammatico è che la tua vita diventa residuale, non autenticamente vissuta, fondamentalmente sprecata.
Nient’altro che rimasugli di sogni, briciole di desideri, tanti doveri e qualche contentino qua e là…
“Quando si elimina il rischio dalla propria vita non resta molto” (S. Freud).
Scegliere significa dunque accettare di cambiare, se-pararci da noi stessi rimanendo fedeli alla nostra natura; significa lasciare andare, accettando di rischiare; distaccarsi dal vecchio per ricomporsi di nuovo.
Separazioni
“Come porre termine, come chiudere: è su questo, e non certo su come iniziare o aprire qualcosa, che chi vive la vita liquido-moderna ha urgente bisogno di istruzioni” (Z. Bauman)
La parola separazione evoca sentimenti negativi, perché rimanda alle esperienze dolorose che necessariamente abbiamo vissuto, a partire dall’esperienza della nascita (il “trauma” primario).
L’angoscia di separazione, al cui estremo è legata la paura della morte, riverbera in noi ogni volta che siamo chiamati a lasciare qualcosa.
Al contrario dell’idea di privazione e di morte, in realtà non c’è vita senza separazione.
Dopo nove mesi di gestazione, il bambino deve staccarsi dalla madre per poter nascere alla vita.
Separarsi, lasciar dietro qualcosa (persone, luoghi, oggetti) è necessario per andare oltre.
Ci sono “unioni mortali” (pensiamo a quante coppie trascinano pesantemente la loro vita, in una stagnante mortificazione dei corpi e dello spirito) e ci sono “separazioni vitali”, cioè distacchi che sono necessari e fisiologici allo sviluppo personale e sociale (oltre la nascita, pensiamo all’adolescente che deve staccarsi dalla famiglia, oppure ai cambiamenti culturali ed organizzativi che devono affrontare le istituzioni per essere in grado di rispondere ai bisogni sempre nuovi del mondo).
Eppure oggi, nell’epoca della costante e perenne “connessione”, la resistenza al cambiamento, naturale entro certi limiti, si è fatta più forte.
Le insicurezze del presente e le incertezze del futuro rendono ancora più difficile accettare la necessità di affrontare il cambiamento, con gli inevitabili distacchi dalle cose non più utili o limitanti.
“Non aggrapparti a qualcuno che se ne va, altrimenti non sarà possibile incontrare chi sta per arrivare” (C.G. Jung)
Contrariamente a ciò che si fa comunemente, non bisogna cercare di trattenere a tutti i costi chi ha deciso di lasciarci.
Bisogna rinunciare a mortificanti suppliche o promesse di cambiamento, che indeboliscono ulteriormente il rapporto e non garantiscono affatto un esito favorevole.
Chi è sicuro dell’autenticità del suo amore, chi dei due ama di più, deve star fermo.
Pur nella sofferenza, deve riporre fiducia in se stesso e nella bontà dei suoi sentimenti.
Solo così si può mettere l’altro nella condizione di interrogarsi sul suo amore, lasciandogli la responsabilità della scelta, della rottura definitiva o dell’eventuale ritorno nella relazione.
Comunque finisca, il coraggio di questa superiore posizione mentale consente di non perdere di vista il vero pericolo, che non è solo la perdita dell’altro, ma soprattutto la perdita di se stessi.
“Il vero inferno è non amare più” (G. Bernanos)
Nelle separazioni affettive è diffusa l’incapacità di chiudere definitivamente i rapporti ormai finiti. Ecco come viene mirabilmente sintetizzata questa difficoltà, questa perenne esperienza umana.
“Ci sono persone che hanno un compagno, ma che si sentono talmente sole e vuote che è come se non lo avessero. Altre, invece, pur di non aspettare, decidono di camminare accanto alla persona sbagliata e, nel loro egoismo, non permettono a quella persona di allontanarsi, anche se sanno che non la rendono felice. Ci sono persone che portano avanti matrimoni o fidanzamenti ormai distrutti, perché credono che stare da soli sia difficile ed inaccettabile. Ci sono persone che decidono di occupare il secondo posto cercando di arrivare al primo, ma quel viaggio è difficile, scomodo e ci riempie di dolore e di abbandono. Eppure, ci sono altre persone che sono da sole e vivono e brillano e si lasciano travolgere dalla vita nel migliore dei modi. Persone che non si spengono, anzi, al contrario, che ogni giorno si accendono di più. Persone che imparano a godersi la solitudine perché le aiuta ad avvicinarsi a se stesse, a crescere e a diventare più forti dentro. Queste persone sono quelle che un giorno, senza sapere esattamente quando né perché, troveranno al loro fianco una persona che le ama con amore vero e, allora, si innamoreranno nel modo più bello.”
È la descrizione profondamente terrena e spirituale ad un tempo che fa, non uno psicoterapeuta o un sociologo, ma Madre Teresa di Calcutta. Con mille pretesti, giustificati anzi come auspicabili, i partner tengono contatti, si scambiamo segnali rassicuranti, mantengono inconsapevolmente sottili fili di un antico legame.
Ci si difende così illusoriamente dalla paura inconscia di affrontare il dolore del distacco definitivo, dando quasi per scontato che siamo incapaci di sopportarlo.
Non ci rendiamo conto che ogni “spiffero”, ogni finestra lasciata aperta su un legame ormai dissolto, si trasforma in un vincolo, una zavorra affettiva, una palla al piede che limita il nostro andare oltre, verso nuovi e più positivi legami.
Non puoi aprire un nuovo capitolo nella tua vita, se prima non chiudi quello precedente.
Bisogna quindi imparare a rompere con il passato, dopo averlo elaborato, tenendo ben a mente il saggio consiglio che, prima di tagliare i ponti, è necessario averli attraversati fino in fondo.
“Quando i ponti crollano, l’equilibrio torna in libertà” (F. Caramagna).
Si chiude una porta e si apre un portone, diceva la mia nonna!
La porta stretta
“Entrate per la porta stretta. Grande è la porta e spaziosa la via che conduce alla distruzione, e molti vi entrano. È piccola la porta e stretto il cammino che conduce alla vita e sono pochi quelli che la trovano.” (Gesù- Mt 7,13-14).
Gesù non dice che sia difficile entrare per la porta stretta, ma che pochi sono quelli che la trovano.
Abbagliati e frastornati da ciò che si mostra, non si rendono neanche conto che quella porta grande e appariscente è in realtà una bocca spalancata che divora e distrugge tutto quello che vi entra. Pochi scorgono la modesta porta che conduce alla pienezza della vita.
La difficoltà non sta nell’entrare attraverso la porta stretta, ma nel vederla, nel trovarla
Le scelte sbagliate che si compiono nella vita ci conducono a perdersi ed a smarrire la strada.
E anche quando trovassimo la porta non riusciremmo più ad entrarci perché è troppo tardi, è già chiusa!
Le porte larghe conducono alla disintegrazione. La porta stretta va verso la realizzazione di Sé come Persone.
Ossia: il percorso per una vita autentica è “stretto” perché è personale e deve essere ricercato con “cura” e attenzione.
Le strade facili che si spalancano oggi davanti a noi si dimostrano in realtà come scorciatoie illusorie per una felicità effimera, sotto l’insegna del “tutto e subito”.
Sesso, droga, denaro e potere sono i feticci ingannatori di una percorso facilitato, che ci porta inevitabilmente alla depersonalizzazione e alla derealizzazione: la distruzione di ogni speranza di salvezza.
OTT
Circa l'autore:
Dr. Roberto Calia Psicologo Psicoterapeuta Milano