Alla fine dell’amore
Il tema della separazione è così universale che investe per propria natura l’umana condizione. Su un tema di così vasta portata sono stati scritti fiumi di inchiostro, versati oceani di lacrime, impegnati poeti, letterati, artisti, filosofi e psicoanalisti……
Porto qui un mio personale contributo, richiamando alcuni aspetti che frequentemente irrompono nel corso di una psicoterapia, con modalità spesso tormentate e tumultuose.
Mi riferisco a quelle situazioni, dolorose e conflittuali, in cui si dibattono, per un tempo spesso prolungato, i pazienti che stanno affrontando una separazione, o anche solo l’idea o l’intenzione di farlo, in una storia d’amore che sembra ormai volgere al termine, a conclusione di un lungo tragitto di tensioni, litigi, incomprensioni.
E’ come se si volesse rimanere attaccati, accanitamente, rabbiosamente, tenacemente a qualcosa che sembra aver perso ogni valore, provoca solo sofferenza, svuotato di prospettive: un “niente”, contrapposto ad un “tutto” che il più delle volte ha caratterizzato l’esordio dello stesso legame.
Quello che agli occhi esterni (di amici, parenti, ma anche di psicologi e analisti) appare ingiustificato, apparentemente senza senso (perlomeno sul piano cosciente), è l’accanimento con cui i due partner continuano non più (o non solo) ad amarsi, ma a disprezzarsi fino all’odio dichiarato, non accettando l’idea della separazione e di liberare se stessi da quello che ormai viene avvertito come tortura, limitazione, vincolo inalienabile.
La tematica sullo sfondo, quella dell’amore e della separazione coniugale, per quanto oggetto di studio e di riflessione, fortunatamente sfugge ad ogni inquadramento ed omologazione; rimane comunque un terreno infido, scivoloso, un campo minato in cui evidentemente non si può accedere senza il rischio di “farsi del male”….
Presento due casi clinici, da me direttamente trattati, in cui il tema della separazione tormentata (questo attaccamento al niente di cui prima dicevo), si è presto posto come punto centrale della psicoterapia stessa.
Separazione impossibile di amori ambivalenti
Il primo caso riguarda un uomo, che chiameremo Aldo, di quarant’anni, sposato da circa dodici, padre di una bambina di cinque anni. La richiesta di terapia era intervenuta proprio per la sofferenza non più tollerabile che stava affrontando intorno all’intenzione di separarsi dalla moglie.
In realtà, ancor prima della gravidanza (che ha poi portato alla nascita della figlia), aveva instaurato una relazione molto intensa con un altra donna, relazione che con alterne vicende ha mantenuto fino ad ora, con una triangolazione “quasi perfetta”.
Fin dalla comunicazione della gravidanza, aveva cominciato ad accusare e a colpevolizzare la moglie di avergli imposto un figlio che lui non avrebbe voluto, accampando presunte inadeguatezze a “fare il padre”, tenendo doverosamente occultata la sua relazione extraconiugale. Relazione che, in contrasto con il vissuto e il giudizio di “rapporto quasi istituzionale”, di “famigliola perbene”, centrata sui valori comuni (il mutuo, una casa decorosa, l’educazione della figlia, il rapporto con parenti ed amici, una vita sessuale regolare e regolata, ecc.), attribuito alla “legittima consorte”, si poneva come “rapporto intenso, passionale, trasgressivo”, caratterizzato da una sessualità spinta, al limite della perversione (con grosso imbarazzo, lentamente, sono emersi i contenuti di questa “passionalità erotica”: parole volgari, abbigliamento intimo particolare, fisicità al limite della violenza, esercitati da lui verso di lei accondiscendente). Non vi è alcun dubbio sulla presenza di una parziale fusione di dinamiche erotiche ed aggressive in questo comportamento sessuale, che rimaneva però, come dire, equilibrato proprio perché consensuale e simmetrico).
L’intenzione della separazione dalla moglie nasceva da una marcata insoddisfazione, non solo sessuale, riferita alla qualità complessiva della vita di coppia (scarsi interessi comuni, aspettative divergenti, ecc.. “con una che guarda il Grande Fratello c’è poco da dire….”). Peccato però che questa intenzione era controbilanciata da continue oscillazioni affettive e da un marcato senso di colpa, inizialmente centrato sulla figlia, poi verso la moglie stessa, verso l’immagine sociale di padre, marito, ecc.; l’idea della separazione si accompagnava ad un vissuto di penosa solitudine, di vuoto, di apatia e di depressione (..”non capisco in realtà chi sono e cosa voglio…”).
Per lungo tempo ha mantenuto rapporti sessuali con entrambe le donne, nutrendo un diverso ma costante interesse erotico verso tutte e due. L’oscillazione fra le due donne aveva una cadenza da metronomo (Aldo in effetti è un grande appassionato di musica colta…): più si avvicinava all’una (ora la moglie, ora l’amante), più sentiva nostalgia e sofferenza per la distanza dall’altra, con un ritmo ed una regolarità ormai prevedibili di seduta in seduta.
Dell’amante, oltre la passione erotica (che in qualche occasione lui stesso ha equiparato ad una “tossico-dipendenza”), non sembrava attrarlo più di tanto nient’altro, se non una generica condivisione di interessi culturali (musica, cinema, ecc.).
Dopo un anno di terapia, il paziente ha lasciato la casa coniugale, andando a vivere per conto proprio in un paesino di una provincia lombarda; con questo di fatto rendendo ancora più equilibrata la distanza “geografica” dalla moglie e dall’amante, che abitano in due diversi paesi della stessa provincia.
Prima di approfondire le dinamiche di questo caso, vediamo la situazione di un altro “esperto” di equilibrismo…
Questo paziente, che chiameremo Renato, di anni ne ha quarantacinque, è sposato dall’età di ventun anni, ha due figli ormai giovani adulti, di cui uno ormai fuori casa (anche se ancora economicamente di fatto sulle spalle di questo bravo “papà”). Il rapporto con la moglie è descritto come ormai spento, privo di slancio, con profonde differenze sociali, culturali, valoriali. Conosciutisi giovanissimi, si sono sposati quasi subito; il primo figlio dopo neanche un anno (all’epoca del matrimonio lei era già incinta), il secondo dopo altri cinque anni.
Dopo i primi anni di intenso innamoramento (in realtà si scoprirà che era solo lui a tenere accesa la “fiamma dell’amore”….), la condivisione eroica di grandi difficoltà economiche e lavorative per la realizzazione delle imprese tipiche di una famiglia in costruzione (senza alle spalle il sostegno delle rispettive famiglie), il rapporto si era lentamente spento, mostrando in realtà le grandi distanze fra i due partner. Alla passione e alla tenerezza era subentrata una costante conflittualità su “quasi tutto”, dalle più piccole alle più grandi cose della quotidianità, con un lacerante atteggiamento reciproco di disistima e di ipercritica.
Le lunghe assenze durante il periodo estivo della moglie (dato che il suo lavoro di insegnante precaria le favoriva e anzi le sollecitava, “…. per il benessere della famiglia e per portare al mare i figli dai nonni materni….”) autorizzavano Renato a prendersi delle salutari (narcisisticamente) boccate d’ossigeno, immergendosi in intense ma fugaci storie d’amore con colleghe più giovani.
In queste storie, lui si lasciava coinvolgere, vivendo momenti di grande fusionalità affettiva e sessuale, proprio perché si ponevano fin dall’inizio come spazialmente e temporalmente definite (relazioni a responsabilità limitata, insomma…): con il ritorno in città della moglie infatti, o finivano clamorosamente, senza alcuna spiegazione all’amante di turno (che rimaneva puntualmente sorpresa e stravolta da questo capovolgimento), o anche se proseguivano, non avevano più lo slancio di prima e si concludevano per “naturale stanchezza”; la spiegazione, mai sufficientemente esplicitata, ruotava intorno ad un luogo comune: il legame con la moglie, la responsabilità verso i figli e la famiglia, “se ci fossimo conosciuti prima”, “mi spiace ma non posso…”.
Renato aveva raggiunto in terapia una sincera ed approfondita consapevolezza della sua situazione sentimentale (ossia del profondo legame d’affetto che provava verso la moglie, d’altro canto percepita come “narcisisticamente spenta” e senza prospettiva, e dell’attrazione “fatale”, simbiotico-narcisistica, verso un nuovo potenziale rapporto d’amore, più coinvolgente e più totale), senza tuttavia riuscire a “mettere in atto”, cioè “agire fuori”, realizzare compiutamente quella separazione che sembrava tutto sommato “salutare”.
Quali chiavi di lettura possiamo vedere per questi due casi, per alcuni versi sovrapponibili, eppure così diversi?
La prima si riferisce alla marcata ambivalenza che caratterizza lo stile relazionale in entrambi i casi. L’ambivalenza affettiva può essere definita come “la coesistenza in una persona di atteggiamenti emotivi di amore e di odio o altri sentimenti opposti rivolti allo stesso oggetto o situazione” (Concise Oxford Dictionary).
Questa paradossale coesistenza, oltre a non essere cooperativa, è fortemente conflittuale. Freud (1926) scriveva che chi ne è soggetto “prova un amore ben fondato ed un odio non altrettanto giustificato verso una medesima persona”.
Da un lato vi sono quindi affetti positivi verso l’oggetto (cure, preoccupazione, tenerezza, ammirazione, orgoglio, piacere, dolcezza, ecc.), dall’altro affetti negativi quali incuria, disprezzo, risentimento, rabbia, collera, cattiveria, desiderio di vendetta e di infliggere dolore, ecc.
Da un punto di vista relazionale l’ambivalenza può essere definita semplicemente come una dinamica di legame che oscilla fra l’attaccamento e il distacco e che si esprime con l’alternanza di manifestazioni (affettive, comportamentali e cognitive) verso uno stesso oggetto.
Il concetto di base è che l’ambivalenza presuppone una relazione intensa; all’interno di questo tipo di relazione rivela il crearsi di una frattura (crisis), dove preesisteva un rapporto univoco, qualitativamente unico e irriproducibile, idealizzato e simbiotico tra due persone intimamente legate. L’ambivalenza implica quindi la presenza di una differenziazione laddove prima c’erano un amore e una fusione: l’alternanza di vissuti di odio e amore sostituiscono la sintonia, la cooperazione, la fiducia, la dipendenza reciproca.
Certo, in ogni relazione affettiva significativa è sempre presente una tendenza a rendere perversa la relazione stessa, intendendo per perversa la tendenza stessa a cristallizzare le modalità del rapporto in una dimensione immobile e senza tempo, per espellere le possibili sofferenze, separazioni e trasformazioni. Secondo Freud l’amore e l’odio sono in un certo senso consustanziali in ogni relazione affettiva intensa e le dinamiche ambivalenti proporzionali all’intensità degli affetti. Un nucleo di ambivalenza primaria attraverserebbe necessariamente tutti gli amori quanto più intesi e veri essi siano.
Il paradosso dell’ambivalenza affettiva è quello di rendere di fatto impossibile il proseguimento di un rapporto, di frantumarne la continuità, di romperlo insomma nel tentativo di rafforzarlo, di mantenerlo integro e vivo. E’ per questo che un rapporto ormai pervaso di ambivalenza non finisce mai per naturale esaurimento, piuttosto si interrompe nei fatti ma continua a vivere sotterraneamente (la separazione di fatto viene negata e resa impossibile).
Esiste quindi una correlazione diretta fra il carattere regressivo, totalitario, assoluto di qualsiasi rapporto simbiotico e l’intensità della rottura che può interessare questi stessi legami, proprio perché, per la natura delle cose, non possono mai reggere di fronte alla richieste, alle pressioni, alle necessità della realtà: in un certo senso ogni rapporto simbiotico vorrebbe porsi fuori dallo spazio e dal tempo, in modo asociale e atemporale. Qualsiasi terzo vi si intrometta è necessariamente portatore di istanze distruttive (“fra moglie e marito non mettere dito”, “gli amici sono la tomba dell’amore”, ecc.). Entro una certa misura è quindi inevitabile che in una qualsiasi relazione affettiva significativa compaiono della componenti ambivalenti legate al rapporto, modalità che i singoli partner debbono instaurare per scendere a patti con la realtà.
Da questo punto di vista, la tenuta di un rapporto sarebbe caratterizzata dalla capacità di tollerare l’ambivalenza, senza che il rapporto ne venga sfasciato dalle sue manifestazioni stesse.
“L’amore che nei suoi strumenti è guerra, nel suo fondo è l’odio mortale fra i sessi” (Nietzsche, 1888).
Una seconda variabile che possiamo richiamare nei casi presentati è quella dell’ambiguità.
Seguendo lo psicoanalista argentino Bleger (1967), ambiguo è “quello che può venire inteso in vari modi o prestarsi a diverse interpretazioni, dando luogo di conseguenza a dubbi, incertezze o confusione”.
L’ambiguità tiene chi vi sottostà in una sorta di limbo in cui l’altro non è del tutto riconosciuto né del tutto messo da parte, non è né promosso né perdente, né presente né assente. In molti casi, implica l’assenza o la dissimulazione di sentimenti autentici e profondi, oppure la coesistenza non espressa di sentimenti ambivalenti verso l’altro.
La riconducibilità di queste considerazioni ai comportamenti dei miei due pazienti è di tutta evidenza. Con maggiore esplicitazione “didattica” potremmo dire che Aldo propone un legame ambiguo con la moglie (non sa se la ami oppure la disprezzi e non sa minimamente orientarsi su l’uno o l’altro dei due poli affettivi), mentre caratterizza con una chiara ambivalenza la relazione “stabile” con l’amante (le modalità sessuali al limite fra passione, pornografia e perversione ne sono la manifestazione più evidente).
Renato all’opposto, mantiene un legame perennemente ambivalente con la moglie, agognando alternativamente un rapporto d’amore perduto (in realtà forse mai pienamente realizzato con lei) e rivendicando aggressivamente la delusione di questa aspettativa.
I suoi rapporti extraconiugali sono sempre al limite, ci sono e non ci sono veramente; Renato qualche volta si innamora e si lascia andare a sogni di riscatto della sua vita affettiva, per poi ritrarsi “inspiegabilmente”, deludendo anche se stesso, e ritornare al suo stanco menàge familiare, tanto disprezzato ma permanente.
L’attaccamento: vincolo o legame?
Può essere utile introdurre qui un richiamo alla teoria dell’attaccamento, ormai ampiamente diffusa in ambito psicologico. E’ merito di Bowlby e di altri autori che hanno proseguito su questo filone di studi (Ainsworth, Fonagy, Stern ed altri) aver chiarito e reso fruibili all’osservazione e alla sperimentazione i processi che si sviluppano nelle relazioni affettive significative fra le persone.
L’amore fra due partner adulti, secondo questo approccio, può essere considerato sinonimo di attaccamento e, nello stesso tempo, parte di quel processo; in tal senso l’amore di coppia con le sue vicissitudini può essere considerato ancorato con le sue radici nel nostro patrimonio evolutivo ed è assimilabile, nelle sue funzioni, all’amore primario che lega un bambino alla madre.
Quello, come questo si evolve continuamente perché è proprio attraverso un forte coinvolgimento con una persona specifica (la madre, il partner) che ciascun individuo non solo può sopravvivere, ma si sviluppa e realizza se stesso al meglio, ottenendo quel successo riproduttivo che secondo le più recenti teorie evoluzionistiche, non riguarderebbe più soltanto la cosiddetta perpetuazione della specie e del nostro patrimonio genetico, ma includerebbe la spinta ineluttabile di ognuno di noi a lasciare in quanti più individui possibili la nostre caratteristiche personali, quindi anche quelle psicologiche, mentali e culturali.
A guidare le nostre azioni e i nostri bisogni di attaccamento ci sarebbe dunque una sorta di bisogno inconsapevole di immortalità, una necessità di evitare la nostra morte esistenziale e la nostra nullificazione.
Il modo in cui ci si lega alla persona amata e si vive il rapporto di coppia sono pertanto fortemente influenzati dalle esperienze peculiari che ciascuno ha avuto da bambino con la propria figura di attaccamento (figura che per lo più è la madre), così che il rapporto madre-bambino può essere considerato il prototipo del legame di coppia. C’è tuttavia qualcosa che, secondo questo stesso paradigma, differenzia nettamente gli attaccamenti adulti da quelli del bambino per la propria madre, e questo complica ulteriormente le cose in modo esponenziale alle diverse figure coinvolte. Mentre i legami madre-bambino sono di tipo complementare (il bambino chiede aiuto, la madre protegge; il bambino chiede conforto, la mamma coccola; i ruoli sono fissi e non è ipotizzabile il contrario). I legami di coppia invece si basano su una profonda reciprocità, sulla possibilità, in altri termini, che ciascun partner sia disponibile e disposto a giocare un ruolo doppio, ad agire a seconda delle circostanze come colui o colei che ha bisogno di essere protetto e confortato. Ogni compagno adulto deve poter trovare nell’altro la figura di attaccamento e la fonte di sicurezza; ciascuno inoltre deve poter fornire sicurezza e porsi come adulto competente ed accudente per l’altro. Ed è proprio quando questa alternanza di ruoli non è possibile (perché non la si vuole, perché non si ha la competenza affettiva per farlo, perché la propria personalità è l’esito di uno sviluppo distorto) che la coppia va in crisi e non funziona più.
Dobbiamo ora chiederci: che tipo di legame sperimentano Aldo e Renato nei confronti delle rispettive partner; quali aspetti della loro emozionalità sono alterati rispetto agli “indicatori specifici” che i teorici dell’attaccamento hanno descritto?
In termini descrittivi i legami di questi due pazienti con le rispettive mogli (dalle quali risulta appunto loro “impossibile” separarsi) sembrano cambiare denominazione, sul piano affettivo, cognitivo e comportamentale: non più semplici legami, ma “vincoli”, ossia legami particolarmente stretti e apparentemente intimi, privi di margini di libertà e contrattualità, che comportano obblighi e sono soggetti a istanze di controllo persecutorio.
Non abbiamo parlato delle caratteristiche delle mogli dei pazienti interessati per non complicare il quadro esplicativo, ma non c’è alcun dubbio che, proprio per l’intreccio delle dinamiche reciproche e speculari, le vicissitudini sono ulteriormente invischiate e rinforzate dalle modalità rispettive messe in campo dall’assetto personologico delle loro compagne (quelle di allora, le madri, e quelle di adesso, le mogli e, solo in parte, le amanti), in un coacervo di reazioni e contro-reazioni ora simbiotiche, ora aggressive e respingenti degli attori di volta in volta in scena.
Il rapporto di Aldo con la propria madre era stato caratterizzato da una costante alternanza di richieste d’amore e di indifferenza apparente da parte del bambino, determinata certamente dallo stato di malattia quasi permanente della madre (in realtà gravemente depressa), non controbilanciato dalla presenza di un padre rassicurante e vicariante.
La madre di Renato invece era stata una madre iper ansiosa ed opprimente con la sua modalità ipertrofica di madre chioccia, determinando nel bambino la strutturazione di un nucleo difensivo di tipo schizoide, per sottrarsi all’abbraccio “mortale” di tipo simbiotico della madre e per evitare le sofferenze connesse alla caduta inevitabile di tale “promessa d’amore”.
Irretiti quindi da modelli relazionali, internalizzati nella prima infanzia, replicati e complicati dagli intrecci relazionali nella vita adulta di coppia, Aldo e Renato sembrano pertanto condannati al “limbo eterno” di relazioni insicure ed infelici, che paradossalmente si autoperpetuano nel tentativo di trovare una via d’uscita. Un altalena mortale fra simbiosi e separazione.
Nella terapia la relazione con questi pazienti sembra caratterizzata da una apparente assenza di transfert, tanto è l’invischiamento e l’assorbimento nelle dinamiche di queste relazioni di coppia, che testimonia la presenza di una replicazione anche in questo rapporto delle dinamiche ambivalenti o ambigue. Nella ricerca, a volte disperata, a volte rassegnata, di “una via d’uscita dal futuro”, questi pazienti da un lato si aspettano quasi magicamente di essere illuminati, guidati per mano verso la soluzione; dall’altro, con una tenace perseveranza, perpetuano i loro comportamenti, i loro continui “agiti”, le proprie aspettative interne, smentendo clamorosamente qualsiasi possibilità terapeutica e, quindi, qualunque valore dell’analista.
Ma c’è una via d’uscita? Pur essendo vera l’opinione così estensivamente diffusa che parlare e scrivere d’amore sia di tutte la cosa più difficile, una via d’uscita ci può comunque essere o, comunque, valga la pena di percorrerla. Ancora una volta bisogna andare oltre i modelli e le teorie, che spesso sono sovrastrutture descrittive semplificate o reificazione della complessa realtà mentale; non rappresentano quindi la realtà “vera” dell’esperienza umana. Parlare delle relazioni d’amore, affrontarle nelle loro autenticità significa poi incontrare l’intimità più profonda della persona, vuol dire entrare nel nucleo narcisistico più segreto di se stessi.
“Risulta immediatamente evidente che l’amore è strettamente, intimamente, profondamente connesso con il narcisismo, quando si riconosce che il desiderio di essere amati trova nel desiderio di amare il suo disgiungente accordo” (D. Lopez).
Freud considerava primario ed originario l’investimento libidico sul sé, così in modo inversamente proporzionale, gli investimenti oggettuali implicano un’inevitabile diminuzione di energia libidica per il sé; non aveva tuttavia considerato la possibilità che anche l’investimento oggettuale non possa esso stesso essere narcisistico. Nella concezione di Lopez, alla quale mi riferisco, il duplice narcisismo su basa proprio sul “gioco dei doppi ruoli”:
Uno di questi ruoli consiste nell’identificazione proiettiva del sé narcisistico sull’oggetto d’amore. Non si tratta dunque solo di investimento oggettuale, ma in modo più essenziale di identificazione dell’oggetto d’amore con il sé narcisistico, proiettato, del soggetto….. Simultaneamente a questa identificazione proiettiva, si mette in azione anche l’altro ruolo narcisistico, quello dove il soggetto si identifica, appunto soggettivamente (identificazione soggettiva) con l’oggetto oblativo, anaclitico del passato (quasi sempre la madre)…. non la madre reale, quanto piuttosto l’ideale di madre che il soggetto desiderava, o pretendeva che la madre fosse.
Il gioco dei doppi ruoli porta come risultante quella che Lopez chiama collusione narcisismo-masochismo:
“… mediante l’identificazione soggettiva con il ruolo di una madre superoblativa, iperindulgente, generosa fino all’autosacrificio, il soggetto continua ad amare – e ad odiare – con impoverimento progressivo delle proprie risorse narcisistiche, ma con soddisfazione narcisistico-masochistica, il proprio sé narcisistico proiettato e incorporato dall’oggetto d’amore”.
Narcisismo e amore non sono quindi contrapposti, ma intimamente connessi in modo più intrinseco e più intimo di quanto lo stesso Freud non concepisse.
“Nel narcisismo vi è amore e nell’amore vi è narcisismo, in una melodica modulazione dei contrari e secondo il principio eracliteo della risoluzione dei contrari nei distinti”.
La soluzione ai nostri dilemmi d’amore va dunque ricercata nei meandri più profondi del nostro narcisismo e delle due posizioni libidico-emotive fondamentali dell’essere umano: la posizione simbiotica e la posizione schizoide.
Con un eccesso di schematismo, dato il contesto, possiamo definire guarito un paziente che, per giungere ad una oscillazione equilibrata e persino ad una integrazione delle due posizioni, ha saputo percorrere un lungo, tortuoso, a volte tragico cammino, sballottato tra una posizione simbiotica frustrante e dissanguante e un ritiro schizoide difensivo, ugualmente sofferto, volto a riconquistare una temporanea coesione mentale.
Come Lopez, ritengo che si possa curare un paziente se vi è la consapevolezza di una posizione schizoide che funga da àncora di salvezza per un soggetto travolto da una relazione coinvolgente, lacerante e dissanguante.
Il passaggio dal narcisismo immaturo all’amore personale implica il distacco dal narcisismo, prevalente nella fase dell’innamoramento, e dalla perdurante nostalgia per tale stato, per approdare gradualmente all’amore per l’altro, dove l’altro è relativamente emancipato dalle posizioni dell’oggetto idealizzato e del sé narcisistico.
Il superamento del narcisismo immaturo dovrà alla fine condurre ad una comprensione e ad un apprezzamento più compiuti della complessità della persona amata, vista per quello che è, inclusi i suoi difetti e le sue debolezze che, con il tempo, appaiono peculiarità.
Qual è dunque il passaggio cruciale che, anche attraverso l’analisi, il paziente deve compiere per approdare alla “terra promessa” di una maggiore autonomia e libertà personale?.
Il bivio tragico, identificabile con il libero arbitrio, è rappresentato dalla consapevolezza che ognuno può sussistere, indipendentemente e autonomamente, prescindendo dal rapporto con l’altro (con l’analista o con il partner). Questa “separazione” è necessaria e possibile.
Questa consapevolezza significa la libertà della persona che può, come tale, permanere coesa, pur nell’assenza di un rapporto d’amore. Da tutto ciò si deduce che l’amore, più che una necessità, deve diventare un lusso.
Questo passaggio implica la raggiunta capacità di contenere ed integrare l’aggressività del sé luciferino che si manifesta apertamente, a volte in modo violento, nei confronti dell’analista in analisi e contro il partner nel rapporto di coppia.
Più semplicemente vuol dire, passare dal coinvolgimento aggressivo al disinvolgimento, preferendo una modulazione del conflitto nella posizione schizoide.
La verità sembra semplice, ma come sempre la semplicità è l’ultima ad apparire.
“Il ripiegamento consapevole e orientato nella posizione schizoide, rappresenta il momento cruciale del libero arbitrio, dove avviene la scelta, libera e responsabile, tra il permanere in un rapporto annichilente e l’abbandonarlo, proseguendo solitari il cammino nella grande via”.
Ritirandosi nella posizione schizoide, il soggetto ha la possibilità di esaminare con più calma la discrepanza fra il modello dell’oggetto relazionale – come il soggetto desidera e pensa che l’oggetto dovrebbe essere – e la realtà del partner, come questa realtà appare al soggetto nella fase negativa.
In sintesi, un distacco attivo rispetto all’impeto dirompente di una rottura, che inevitabilmente trascina con se il terrore dell’annichilimento, di sé e dell’altro.
“Là dove non è possibile amore, là bisogna andare oltre” (Nietzsche)
Privilegiare il transfert negativo secondo implica che il soggetto ha concepito ed acquisito un grado più elevato di integrazione di rispetto di sé e dell’altro come persone. Sempre secondo Lopez:
“Il passaggio dal transfert positivo verso il partner o l’analista, unilaterale o reciproco, al transfert negativo secondo consiste, in primo luogo, nell’evitamento del transfert negativo primo, là dove vi è esplicitazione della rabbia che potrebbe degenerare nel crescendo di un conflitto conclamato e irrimediabile. In secondo luogo, nel rapporto d’amore il transfert negativo secondo implica il tentativo di contenere l’ira e di pervenire a una soluzione realistica del conflitto, esaminando le responsabilità reciproche, i reciproci difetti caratteriali, evitando le prese di posizione generalizzanti, dove si impone la visione negativa della relazione e dove la fine del rapporto appare l’esito inevitabile.”
Ancora:
“Questo è solo un aspetto di un tentativo costruttivo di esame di realtà. L’altro riguarda sé stessi, il riconoscimento delle proprie pretese narcisistiche, della propria intransigente e razionalizzata volontà di potenza”.
Il ritiro schizoide dal conflitto significa che il soggetto riesce per lo meno a salvaguardare la propria coesione e integrità di persona e forse anche quella dell’altro, rimandando ad un secondo tempo, più sereno e disteso, la ripresa positiva del rapporto.
Naturalmente, non sempre ciò è possibile, perché spesso il partner non riesce o non vuole fare altrettanto e rimane nella situazione coatta di coinvolgimento emotivo negativo.
E’ quindi essenziale nell’interesse di entrambi sospendere un conflitto, che per il momento non offre vie di uscita, la cui prosecuzione condurrebbe invariabilmente nella violenza mimetico-speculare dei doppi, che si rinfacciano l’un l’altro le accuse, senza rendersi conto di voler affermare la propria volontà di potenza individualistica, distruttiva e castratrice, del tutto analoga a quella del partner.
Il destino di una relazione d’amore, sospinta verso più elevati livelli di sviluppo libidico-emotivi, non può quindi essere la rassegnazione a soggiornare nella palude della “lotta mortale dei sessi” (Nietzsche).
Viene il momento in cui in una relazione di coppia, che ha attinto il significato di rapporto fra due persone, entrambi i partner, alternativamente o simultaneamente, possano pervenire a quella nobiltà del sentimento, dove affermano: “hai ragione tu!”, “hai ragione anche tu!”
Significa che ad ognuno è offerta l’evenienza di riconoscere l’altro, come rappresentante di un sé stesso più vero di quanto egli stesso sia.
La prospettiva che vogliamo contribuire ad affermare è quella di una concezione finale dell’uomo in cui l’equilibrio tra investimenti del sé e investimenti oggettuali è essenziale al conseguimento del modello della persona, intesa come individuo sano della specie umana; concezione dunque di un rapporto d’amore fra due persone, dove narcisismo maturo ed amore altruistico siano armoniosamente congiunti.
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Circa l'autore:
Dr. Roberto Calia Psicologo Psicoterapeuta Milano