Il virus e la paura
“O è il male ciò di cui abbiamo paura,
o il male è che abbiamo paura.”
(Sant’Agostino)
Troppe cose sono già state dette sul coronavirus e sulla pandemia in corso. Ma molte ancora se ne dovranno scrivere. Tutti ne parlano e tutti si sono costruiti le proprie convinzioni. Mai l’umanità si è trovata così accomunata ad affrontare sul piano planetario e contestuale lo stesso fenomeno. Qualunque sarà la storia di questo evento, in qualunque parte del mondo tutti oggi ci troviamo ad impattare sul piano emotivo, fisico e sociale una nuova invisibile minaccia. Di fronte ai pericoli improvvisi, sconosciuti ed imprevedibili (e che perciò sfuggono al nostro controllo), tutti ricerchiamo certezze e ci aggrappiamo alle conoscenze su quella minaccia, allo scopo di farci una ragione sulle origini, sulle cause e sulle possibili soluzioni.
Non c’è alcun dubbio su questa epidemia ancora in corso; quello che aleggia velenoso nell’aria è un duplice contagio: il contagio biologico del virus tra i corpi e il contagio psicologico della paura tra le menti delle persone.
Davanti ad un pericolo la paura è un automatismo naturale, geneticamente dato, non è una anomalia. La paura è la più potente ed antica emozione umana. Ma quello che non tutti sanno è che la paura non è riconducibile direttamente al pericolo, ma alla percezione che abbiamo del pericolo stesso. La paura non è quindi oggettiva ma soggettiva.
Dinanzi ad una epidemia, i decisori pubblici si rifanno (giustamente) alle cognizioni fornite dagli esperti, ma mentre sul piano biologico virologi, infettivologi, epidemiologi sono in grado di fornire elementi utili sulle caratteristiche di trasmissione del contagio fisico, non sempre sull’altro polo del problema si cercano le risposte adeguate (che pur ci sono) per ricavare riferimenti validi nella gestione dell’epidemia e proteggere la popolazione sul piano psicologico. Mentre si cerca di contenere i danni fisici alle persone, la paura, sganciata dal pericolo reale, si diffonde a dismisura, fino a divenire ansia generalizzata e panico, prima a livello individuale, poi collettivo. Questa virale diffusione della paura si può definire psico-pandemia!
Così in modo apparentemente paradossale, i danni causati dal virus (morti e contagiati), che ha originato la paura, possono risultare inferiori alle conseguenze psicologiche del panico che si diffonde fra la popolazione, ancora più velocemente del contagio biologico.
I danni sulla salute mentale – quella di oggi e quella futura – sono incalcolabili, ma sicuri, continuando su questa linea; gli stati ansiosi generalizzati, a seconda dell’assetto e dell’equilibrio psicologico di ognuno di noi, potranno sfociare in depressione, somatizzazioni, disturbi di personalità, psicosi.
Senza alcuno spirito negazionista (francamente fuori luogo), o più o meno vagamente complottista, una grave pecca nella gestione di questa pandemia, più o meno generalizzata (con molte varianti ed eccezioni nel mondo) può essere individuata proprio nella comunicazione pubblica dell’emergenza.
Quanto questa modalità comunicativa, fondata esattamente nel dilatare la percezione della paura nella popolazione, lanciando notizie parziali o contraddittorie, enfatizzando dati ed evocando scenari cupi o apocalittici, sia stata voluta e consapevolmente orientata, oppure determinata da imperizia o pressappochismo, è questione che dovrà trovare risposte a mente serena sul piano politico.
Quel che è certo è che, sul piano psicologico, alimentare la paura (anziché la responsabilità dei singoli cittadini) significa inevitabilmente innescare stati di ansia che a livello individuale risultano difficilmente tollerabili, e che quindi si trasmettono a macchia d’olio sul piano collettivo.
Esattamente come il contagio biologico. Solo che nell’epoca dei social e dell’informazione diffusa, la contaminazione emozionale fra le persone assume velocità esponenziali un tempo impossibili. Questa caratteristica dei processi psico-sociali non era nota ai numerosi esperti delle task force governative? Non pare verosimile. In ogni caso questa “ignoranza” appare colpevole.
Tutta la rappresentazione collettiva e la narrazione prevalente di questa epidemia sono state caratterizzate da “errori” macroscopici quanto grossolani (per questo non credibili). Citiamo ad esempio i due tormentoni più diffusi: “andrà tutto bene!” e “niente sarà più come prima”. Qualunque dilettante sa che una affermazione di psicologia positiva non deve essere posta nel futuro, ma nel presente, qui ed ora. In più evocare la sparizione di prospettive future rassicuranti, significa minare l’asse del tempo (passato-presente-futuro) sul quale ancoriamo lo sviluppo della nostra personale esistenza.
In questo modo le persone, private anche delle normali libertà quotidiane, sono state costrette a vivere in un ipertrofico presente di tensione e pericolo costante. L’obiezione che mi è stata posta è che “se non spaventi le persone, non le convinci a fare le cose ritenute necessarie”.
Che sia relativamente più semplice la via autoritativa può essere entro certi limiti vero. Ma agire sulla paura significa essere consapevoli di attivare processi psicologici e sociali a catena, che bisogna poi saper orientare. In ogni caso l’obiezione conferma l’intento manipolatorio sotteso nella gestione dell’emergenza.
Sulla scorta delle conoscenze scientifiche che già possediamo delle dinamiche psicologiche (e sì, da questo punto di vista, anche la psicologia è scienza, al pari della medicina e della biologia!), si poteva operare diversamente. Agire sul senso di responsabilità delle persone (responsabilità verso se stessi, verso gli altri e verso la comunità), significa contare su cittadini-adulti, non su sudditi-bambini in preda alla paura e in balia degli eventi.
Per completezza espositiva la sequela pericolo – percezione del pericolo – paura – panico culmina nella “gratitudine per la salvezza” (P. Legrenzi): questo spiegherebbe perché i cittadini, terrorizzati ed incapaci di fronteggiare un evento raccontato come terribile e senza soluzione apparente, si attestino alle comunicazioni ufficiali (“gli esperti” di un virus non noto finora neanche a loro…) e da quelle conoscenze si aspettano di restare “invulnerabili” e alla fine di essere “salvati”. Questo spiega ancora perché la gente prova più paura di morire per il covid e non di tumore o malattie cardiovascolari, che ad oggi rappresentano oggettivamente le cause di morte largamente più realistiche.
Dalla paura alla responsabilità
Si poteva fare diversamente sul piano della comunicazione e dell’informazione? Penso sicuramente di sì. Mi riferisco alle numerose esperienze in cui gli psicologi sono stati coinvolti nella gestione di emergenze pubbliche (catastrofi naturali, terremoti, azioni terroristiche, incidenti, ecc.). In tali circostanze drammatiche la gestione dell’emergenza comporta la capacità di gestire e modulare la comunicazione verso la collettività. Di fronte alla naturale risposta emotiva, il riferimento ad informazioni chiare e certe, fornite da una fonte unica ed autorevole, costituisce un ancoraggio cognitivo in grado di contenere ansie e percezioni dilatate degli accadimenti. Al contenimento dell’evento sul piano oggettivo (pericolo reale) si affianca il contestuale contenimento della reazione sul piano soggettivo (percezione del pericolo). Nel caso di una epidemia, una congruente gestione dell’emergenza comporta di saper operare, con realismo e tempestività, sul contagio biologico del virus, ma contestualmente di essere consapevoli di dover contrastare la diffusione del contagio psicologico della paura. In un’epoca in cui l’informazione è così diffusa e incontrollata, la rapidità della psico-pandemia è inevitabilmente superiore a quella del contagio reale del virus.
Questa scelta avrebbe comportato di puntare non sulla paura ma sulla responsabilità, sia dei singoli cittadini che della collettività nelle sue diverse articolazioni. Agire sulla responsabilità avrebbe significato rendere pubblicamente disponibili indicazioni altrettanto operative ed efficaci di quelle fornite per fronteggiare il contagio biologico.
Siamo forse ancora in tempo, perlomeno sul piano delle scelte personali, che dovrebbero essere libere e, appunto, responsabili.
Alle tre regole ormai divenute, in bene e in male, “virali”, ossia:
– distanziamento sociale
– mascherine
– igiene fisica
possiamo (dobbiamo in realtà, per uscire dal cortocircuito paura-ansia-panico) affiancare tre ulteriori azioni consapevoli:
– distanziamento mediatico
– “mascherine” social
– igiene mentale.
Le prime tre sono note, argomentiamo la seconda terna proposta.
Il distanziamento mediatico comporta di prendere la giusta distanza dal martellamento comunicativo messo in moto dalla stampa e dalle televisioni. L’ipertrofia informativa, lungi dal creare certezze, finisce anzi per confondere e alimentare ulteriore indeterminatezza e quindi ansia. I media da sempre agiscono sul sensazionalismo e sulle emozioni della gente e benché proclamino di “fare cronaca” e riportare l’obiettività della realtà, non rappresentano affatto in questa situazione un punto fermo per avere rassicurazioni. E ciò a prescindere dalle linee editoriali (catastrofiste o complottiste, per citare solo i due estremi di un continuum informativo).
Sul piano psicologico il distanziamento mediatico è l’equivalente del distanziamento fisico: entrambi permettono di modulare la giusta distanza (fisica e psichica) da tenere per contenere la diffusività del problema.
Ho volutamente usato la denominazione di “distanziamento fisico” al posto di quello usuale di “distanziamento sociale”, per sottolineare l’attenzione sull’elemento biologico (il passaggio del virus da corpo a corpo) da sottoporre a controllo. Il pericolo non sono quindi le altre persone (tutte insieme impegnate a fronteggiare il comune pericolo). Il distanziamento fisico, ma non quello relazionale, è sufficiente per tenere a bada il contagio biologico, consentendo così di ridare centralità ad un riferimento antropologico essenziale che non deve essere mai messo in discussione, ossia la centralità delle relazioni in un consesso sociale che voglia definirsi ancora umano!
Il rapporto persona-persona, dal punto di vista emotivo, affettivo e sociale rimane un valore fondante del vivere sociale, anche se in questo momento è opportuno mantenere un relativo distanziamento fra i corpi. E ciò, in modo responsabile e consapevolmente orientato, proprio per preservare la specificità delle relazioni umane. Con il distanziamento fisico facciamo felice Darwin, con quello mediatico facciamo parimenti contento Freud.
Se col distanziamento mediatico ci preserviamo da un eccessivo influenzamento esterno, con il suggerimento di mettere simbolicamente una “mascherina” quando accediamo ai social, completiamo la nostra protezione dal contagio psicologico generato da quella che è stata denominata infodemia, ossia la trasmissione caotica e incontrollata di notizie, spesso frammentarie e contraddittorie, senza alcun filtro cognitivo. Questo bombardamento mentale di dati, notizie, vere o false (senza peraltro verificarne l’autorevolezza della fonte), anziché rispondere all’esigenza di placare la mente, che cerca di controllare l’evento con la ragione, sortisce il risultato opposto: aumenta la confusione e l’incertezza, obbligandoci (sia pure inconsapevolmente) a raffazzonare una nostra personale rappresentazione, anche a costo di mettere insieme arbitrariamente una “verità” di fatto realisticamente, ad oggi, inesistente. Alle carenze della Scienza, che di fronte ad un evento nuovo di tale portata, non può fornirci necessariamente tutte le certezze necessarie (il metodo scientifico comporta di per sé di operare per “prove ed errori”, prevedendo il dubbio e l’incertezza come costitutivo del successivo livello di certezza; la verità scientifica non è mai quindi ma vera e definitiva in assoluto!), ciascuno di noi, per dare risposta alla propria paura, in modo autoreferenziale si è dato una propria “verità interna”, alla quale si aggrappa difensivamente per sopravvivere.
Non dobbiamo però identificarci del tutto con questa “verità”, scambiando le nostre personali idee per il vero, ma dobbiamo piuttosto essere capaci di tollerare il dubbio e l’incertezza. Il costrutto della resilienza può esserci di aiuto. “Mi piego ma non mi spezzo”. In campo psicologico il termine “resilienza” indica la capacità di persistere nel perseguire le mete della vita, fronteggiando le inevitabili difficoltà, le crisi e gli eventi negativi che incontriamo nel nostro cammino. Essere resilienti significa essenzialmente essere consapevoli, in profondità e autenticità, di se stessi, dei propri pregi e delle proprie debolezze. Chi ha resilienza è capace di non perdere la prospettiva e la speranza. Le prove inevitabili della vita possono essere accolte come opportunità per rafforzare il senso della nostra esistenza e le competenze (mentali e spirituali) per viverla in pienezza. (vedi)
Se abbiamo preso sufficiente distanza dai media, sui social dobbiamo smetterla di inseguire profili, pagine o video, di personaggi che, in buona o mala fede, vogliono convincerci della propria verità (anche questa, come la nostra, incompleta e più o meno credibile).
Abbiamo accettato un minimo di prudenza fisica, adoperiamo la stessa prudenza dal punto di vista mentale. Ed è proprio il piano mentale che vogliamo preservare da un’eccessiva contaminazione (emotiva e cognitiva) con il terzo suggerimento, quello dell’igiene mentale. Ci possiamo “lavare” più spesso il cervello adottando attenzioni specifiche su questo piano. Non è tanto un generico tentativo di dare risposta allo stress attraverso pratiche di rilassamento, meditazione o distensione mentale. Dobbiamo porre attenzione consapevole alla necessità di “tenere pulita ed igienizzare” la mente, tanto quanto l’attenzione che riserviamo al corpo.
Quando predomina la paura, il nostro organismo intero è “minacciato”, le nostre reazioni psicofisiologiche sono nefaste per la nostra salute. È ormai scientificamente accertato che noi non siamo fatti di una mente e di un corpo, tanto meno il nostro corpo può essere concepito (come fa la medicina iperspecialistica odierna) come tanti “pezzi” (organi, funzioni, apparati): noi siamo “persone intere”, fatte di corpo, mente e anima, indisgiungibili. Ogni nostra azione, ogni nostro pensiero si ripercuotono globalmente, mettendo in connessione (esattamente come la rete) i nostri sistemi viventi: quello psichico, con quello nervoso, endocrino e immunologico.
Agire sul corpo e agire con la mente non sono separabili; quindi agire in entrambi i livelli è più proficuo per la nostra salute. Da più parti è stato richiamato che la paura di fatto produce un abbassamento delle capacità di risposta del nostro sistema immunitario, che è invece il primo baluardo difensivo sul qual dovremmo contare.
Disinnescare la paura è possibile facendo leva sul suo opposto, che non è il coraggio ma l’amore! Perché la natura ci ha messo a disposizione la paura? Proprio per preservare la vita! Quindi la paura è solo uno strumento di difesa della vita, non può in alcun modo sostituirsi alla vita stessa.
Il focus, la nostra attenzione deve spostarsi dalla paura di morire all’amore per la vita, altrimenti nel tentativo di vivere finiamo paradossalmente per morire di paura!
Così come abbiamo recuperato il senso centrale delle relazioni interumane, spostando il baricentro delle nostre difese dalla paura al senso di responsabilità, è l’amore, per se stessi, per gli altri, per il mondo nel suo complesso, la risposta (ad un tempo biologica e spirituale) che dobbiamo attivare.
Possiamo, come singoli e come collettività umana intera, sconfiggere questo virus togliendogli la dignità di nemico e l’importanza che non ha (sapete bene che il virus non è un organismo vivente); non è il virus il nostro nemico ma il nostro modo sbagliato di reagire alla pandemia e a tutti i problemi della vita. Smettiamola di vivere nella paura, con l’ossessione del virus e con la paranoia del contagio; qualunque sia il senso di questa ennesima esperienza ci tocca attraversarla con coraggio e determinazione, nella logica della Vita (quindi dell’Amore) e non in quella della Morte (ossia la Paura).
Il nostro futuro, fondato sul passato, passa dalla capacità di transitare in pienezza e consapevolezza il presente. Non è la morte che possiamo sconfiggere ma la nostra inettitudine a non vivere la vita fino in fondo, pregustandola anche nelle avversità, privandola del piacere delle relazioni (che è ciò che differenzia l’essere umano nella scala biologica) e dell’Amore come fine ultimo dell’esistenza.
Con buona pace per la paura, la terra non deve essere concepita come la valle dei morti viventi.
Amen!
AGO
Circa l'autore:
Dr. Roberto Calia Psicologo Psicoterapeuta Milano