Vocazione

Vocazione, passione, talenti

“La vocazione è un torrente che non si può respingere, né sbarrare, né forzare.
S’aprirà sempre un passaggio verso l’oceano.”

(H. Ibsen)

Che cosa spinge un uomo a scegliere di seguire la propria strada, a emergere dall’identificazione con la massa, ad uscire da un’informe individualità per diventare una persona compiuta?
Non può essere la necessità, perché la necessità si presenta a tutti, e tutti cercano rifugio nelle convenzioni. Non può essere l’ambizione, perché i più abbandonano i propri sogni e si rifugiano nelle consuetudini.
Che cos’è dunque che fa pendere la bilancia a favore dell’unicità, a correre il rischio di essere se stessi, anche contro ogni avversità? È ciò che comunemente definiamo VOCAZIONE.
Se abbiamo la volontà e anche la fortuna di individuarla, c’è sempre, nella nostra vita, una misteriosa coerenza, un filo conduttore, una trama che qualcuno chiama vocazione, chiamata, o addirittura destino. Un fattore irrazionale, una forza che fatalmente spinge a emanciparsi dalla collettività, ad andare oltre i binari precostituiti e le strade già battute.
“Qualcosa” che dobbiamo saper riconoscere e che dobbiamo avere il coraggio di non tradire, se vogliamo restare fedeli a noi stessi, e cercare di fare qualcosa che ci fa sentire di “valere”.
Ciascuno di noi dovrebbe avere come motivazione originaria e irrinunciabile quella di conoscere se stesso.
Il problema è che ognuno deve riuscire a realizzare non un destino qualunque, ma il “proprio” destino, il proprio “scopo” personale, accoglierlo dentro di sé e cercare di viverlo tutto fino in fondo.
Una personalità forte non rinuncia alla propria “aspirazione”, che non è più ambizione smodata, ma anelito ad una superiore elevazione. Non bramosia generica e compulsiva di successo, ma spinta evolutiva vissuta con passione, che si fonda sui propri talenti, i propri “doni” e le proprie abilità particolari.
“Non puoi scegliere tu la tua vocazione. È la tua vocazione a scegliere te. Ti sono state elargite doti particolari, che sono soltanto tue. Usale, qualsiasi possano essere, e non indossare mai i panni altrui” (O. Mandino).

Il dono

“Il tuo talento è il regalo di Dio per te. Quello che fai con quel talento è il regalo che restituisci a Dio” (L. Buscaglia).

Ciò che sono è il dono che ho ricevuto.
Avendo consapevolezza di questo dono,
ciò che divento, quello che sento, penso, agisco;
tutto ciò che creo e realizzo,
per me, per gli altri e per il mondo,
sono il regalo che io restituisco alla Vita.
Usa il tuo talento come dono,
anzi di più, come perdono.
Sii tu stesso il dono.
La circolarità virtuosa del Bene, la continuità dell’Amore, è la forza vitale che muove il Mondo.
La circolarità viziosa del Male è quella che lo annienta.

Se stessi

“È nel momento in cui mi accetto così come sono che io divento capace di cambiare” (C. Rogers).

Spesso il problema più difficile che abbiamo è proprio il rapporto con noi stessi.
La nostra identità o, meglio, quello che pensiamo di essere, è plasmata in genere su un modello di noi stessi, costruito da pezzi del nostro passato e dalle influenze, normative, educative sociali, culturali che abbiamo assorbito; un modello che il più delle volte è diventato un “calco” troppo distante da ciò che siamo realmente, dal nostro vero Sé, dalla nostra Essenza.
Così siamo sovrastati da una sorta di feticcio idealizzato, il “poster” di un personaggio con caratteristiche fisiche e psicologiche, che rappresentano quello che vogliamo essere, il nostro Sé ideale.
Il rapporto con questo modello (il più delle volte del tutto inconsapevole) è sempre critico e giudicante. Un giudizio quasi sempre a nostro sfavore e anche quando ci sentiamo in sintonia, è sempre in prospettiva di un traguardo più alto che “dobbiamo” ancora conquistare.
In sostanza, di fronte a questa “gigantografia”, che è divenuto il nostro standard, siamo sempre piccoli, inadeguati, insufficienti e imperfetti. Un giudizio che non ammette repliche o possibilità di riscatto. Dobbiamo continuamente rincorrerlo, senza poterlo mai raggiungere.
Quando questo modello diventa il nostro “giudice interiore”, rischiamo di seguire strade che non sono autenticamente “nostre”, vivendo uno stato di perenne frustrazione. Quell’inquietudine, quel senso di vuoto che spesso senti, e tenti di nascondere, ti segue ovunque tu vada.
Inutile cercare di sfuggire, cercando luoghi, persone, impegni che ti riempiano il “buco” che senti dentro, il “gap” rispetto a ciò che dovrebbe essere.
Tutto nasce proprio da lì: da un falso Sé, che ostentiamo come maschera che tenta di emulare ciò che vorremmo essere e che in realtà nasconde e oscura la nostra vera essenza.
La sofferenza profonda è data dalla distanza da ciò che siamo realmente e può essere superata soltanto ritornando “allineati, in sintonia con le nostre più autentiche e profonde vocazioni personali.
Dobbiamo recuperare consapevolmente un’immagine prospettica di noi che ci sia “amica” e che ci sprona ad essere migliori.
Non più quello che ci piacerebbe essere (Sé ideale), ma ciò che ci appartiene potenzialmente (ideale di Sé), ossia la migliore versione di noi stessi (non il migliore in assoluto, che non esiste affatto ed è solo un’illusione mortificante).
“Se tu desiderassi soltanto ciò che desidera la tua anima, tutto sarebbe molto più semplice. Se ascoltassi la parte di te che è puro spirito, tutte le tue decisioni sarebbero facili, e porterebbero risultati gioiosi” (N.D. Walsh).

Solo una immagine egosintonica di noi stessi ci può motivare facendoci sentire autentici, in un continuo ed entusiasmante miglioramento di noi stessi, che è contemporaneamente aderente con il mondo esterno, in un rapporto realisticamente arricchente.
La persona allineata verticalmente al proprio Sé è quella che ha saputo integrare il falso Sé, ossia la nostra facciata sociale, con il vero Sé, ossia la parte più autentica e profonda di se stessi.
Quando questo accade, la persona vede in prospettiva, ha una “fede”, una fiducia incrollabile nella propria vocazione, come fosse qualcosa di sacro.
“Vuole” ubbidire alla propria legge, come se fosse una forza sovrannaturale a suggerirgli strade nuove e straordinarie. La vocazione opera come una legge divina, cui non si può derogare.
Chi ha una vocazione sente la voce della sua interiorità: è “chiamato”.
“Tutti, presto o tardi, abbiamo avuto la sensazione che qualcosa ci chiamasse a percorrere una certa strada” (J. Hillman).

Passione

“Un uomo come me non può vivere senza una mania, una passione divorante o, per dirla con Schiller, senza un tiranno. Io ho trovato il mio tiranno e, per servirlo, non conosco limiti. È la psicologia” (S. Freud).

“Tre passioni, semplici ma irresistibili, hanno governato la mia vita: la sete d’amore, la ricerca della conoscenza e una struggente compassione per le sofferenze dell’umanità” (B. Russell).

Le passioni di Freud e di Russell sono anche le mie. Ognuno ha i suoi demoni e i suoi tiranni. Nessuno è perfetto!
Ho sempre concepito la vita come opportunità, non semplicemente come attesa, come evenienza dinamica, non statica. La vita terrena (“questa” vita, non la Vita eterna che è altro…) è in fondo l’esperienza che possiamo vivere nell’intervallo fra la nascita e la morte.
D’accordo con Schopenhauer la soluzione che tutti possiamo giocarci nella vita è quello di pregustare fino in fondo questo intervallo, nello spazio e nel tempo che ci è concesso.
Senza passione (pathos) la vita è mera possibilità, forza che rimane latente e non diviene atto.
Lo scopo dell’esistenza è di realizzare compiutamente se stessi, in sintonia con la propria essenza.
“Ma che cos’è la passione, che cosa sono le emozioni? È lì la fonte del fuoco, è lì la pienezza dell’energia. Un uomo che non sia infiammato non è nulla: è ridicolo, è bidimensionale.
Dev’essere infiammato anche se fa la figura dello stupido. Una fiamma deve bruciare da qualche parte, altrimenti non splende nessuna luce, non c’è calore, non c’è nulla” (C. G. Jung).

Ho avuto la fortuna di trovare precocemente la mia “vocazione”, una vera fortuna intravedere da bambino cosa vuoi “fare da grande”; senza una prospettiva, una meta verso cui tendere è più difficile costruire qualcosa nella vita.
“Chi ha un “perché” abbastanza forte, può superare qualsiasi “come” (F. Nietzsche).
Oltre questa fortunata intuizione, senza falsa modestia o ipocrisia, penso di essermi poi conquistato con fatica e con i miei meriti tutto il resto (studi, lavoro, laurea, formazione psicoanalitica, carriera in ambito pubblico e privato, ecc.).
Il lavoro di uno psicoterapeuta si fonda essenzialmente nell’essere più che nel fare; nell’usare quindi se stesso come “strumento” di lavoro: più questo strumento è affinato (“pulito come uno specchio”, attraverso una continua analisi personale), più può essere efficace per aiutare i pazienti (guai a non saper distinguere i propri problemi da quelli degli altri, la propria psiche dalla relazione con l’altro…).
La consapevolezza di sé è dunque propedeutica nel lavoro psicologico, ma poi prosegue come “analisi interminabile”.
Ho dovuto quindi letteralmente ritagliarmi lo spazio per esercitare la mia missione nella vita. E ho cercato di farlo appunto con passione, compassione, umorismo e stile. Sempre, nonostante tutto.
Ho inteso la psicologia come strumento utile alla vita per viverla con maggiore profondità, come ricerca per la consapevolezza di sé, degli altri e del mondo.
“Trova la tua chiamata, e ispira gli altri a trovare la loro” (S.R. Covey).

Nessun manuale può insegnare la psicologia.
Non la si apprende teoricamente, attraverso letture e studio intellettuale, ma solo tramite l’esperienza effettiva.
La “psiche” si amplia solo con ciò di cui si è fatto personale esperienza nella realtà.
La comprensione cognitiva non è sufficiente, perché si apprendono solo i termini e non i contenuti interiori degli eventi di cui si tratta.
Se non si integra il pensiero con l’azione, se non si traduce ciò che si è capito razionalmente in atteggiamenti e comportamenti consapevoli (ethos), in “tensione relazionale”, si perde il passaggio dal capire al comprendere, l’integrazione della mente con il “cuore”, con le emozioni, gli affetti e i sentimenti, ciò che fa di quella esperienza una pietra nel selciato del nostro cammino umano, una scintilla del passaggio lungo la nostra evoluzione complessiva.
Per questo ci sono studiosi (anche psicologi e psicoterapeuti), che pur dedicando la propria vita alla ricerca, perdono di vista la ricchezza della propria anima e conducono una vita spiritualmente arida.
Vivono cioè una vita fondata sulle “cose visibili”, “scientificamente provate”, come la maggior parte della gente assorbita solo dalle cose materiali, perché i loro pensieri sono sperimentati come oggetti e non come esperienza di sé.

“Nessun terapeuta può condurre i propri pazienti al di là dei limiti che egli stesso, per primo, non abbia imparato a sormontare” (R. Calia).

(rif.: D. Lopez, C.G. Jung, J. Hillman, F. Alberoni, H. Hesse)

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Circa l'autore:

Dr. Roberto Calia Psicologo Psicoterapeuta Milano
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