Abuso e violenza

Etica, giustizia e responsabilità individuale

Solo all’idea che qualcosa di orribile sia potuto accadere a noi, ai nostri cari, le persone reagiscono in modi opposti.

C’è chi (e penso di essere fra questi) allo sgomento fa seguire una reazione “di lotta”, aggressiva e legittima contro chi ha abusato del suo “potere” (materiale o morale) per sovrastare l’incolumità fisica e l’integrità psichica nostra, di un bambino, di una persona anziana.
E c’è chi invece non riesce a fronteggiare tutta l’angoscia che quel fatto o quella notizia trascina con sé, e si difende negando, minimizzando, proiettando o spostando lontano da sé l’immagine di quell’evento.
Questo spiega tanta cecità di fronte a fatti che, da un’altra distanza, appaiono inequivocabili.
Mamme che non credono ai propri bambini, che difendono i propri partner, mettendo letteralmente nelle loro mani il destino dei figli.
Nella dimensione sessuale scattano poi altri meccanismi psicologici, meccanismi fondati culturalmente, che agiscono in modo subdolo come stereotipi o costrutti, senza che se ne abbia la benché minima coscienza, ma che i comportamenti “agiti” manifestano per quelli che sono.
Sono questi meccanismi inconsci che possono portare a colludere con chi commette abuso o violenza.
Siamo già evidentemente nella patologia, non solo di chi commette il crimine, ma anche di chi lo nega.
Il fatto che siano “inconsci” non vuol dire poi che esimono l’individuo da ogni responsabilità.
“Sia pure inconsciamente, ma lo hai fatto e ne rispondi!”

Dalla parte della vittima

Il diritto alla salute fisica e psichica comporta anche il dovere verso la collettività di rispondere dei propri comportamenti. Altrimenti tutto sarebbe giustificato con la “patologia”: una “incapacità di intendere e di volere” non si nega a nessuno!. Altra collusione fra giudici e difensori.

Come in un corto circuito, di fronte ad un “soggetto” che ha il solo torto di porsi come amabile e desiderabile, scattano pulsioni contrastanti di attrazione, di invidia e di distruttività.
Ecco allora la regressione a fasi primitive di sviluppo filogenetico della specie, una sorta di de-generazione che tenta di ripristinare l’antica gerarchia fra generi e generazioni, la supremazia (biologica, fondata sulla forza fisica) del maschio sulla femmina e sulla prole, considerati come possesso, come oggetti per l’appagamento istintuale e la sopravvivenza.
Ovvio dunque che normalmente le notizie di violenza contro le donne, contro i bambini e in genere contro le persone più indifese suscitino un sentimento collettivo di repulsione.
Tutta la comunità si sente toccata nella sua integrità culturale, ricacciata a modelli e rapporti sociali non più tollerabili e non più funzionali al funzionamento e allo sviluppo di quel con-testo umano.
Eppure c’è chi tenta una difesa, un relativizzazione del misfatto, c’è sempre un’attenuante: la deprivazione, la povertà, l’emarginazione.
L’abusante diventa solo uno “sfortunato”, verso cui provare commiserazione e clemenza.
Ogni richiamo alla responsabilità personale è sospesa: “si tratta in fondo di uno sbaglio, diamogli tutte le chance per recuperare….”
La vittima? Spesso dimenticata, lasciata normalmente sola a ricucire in privato le ferite della sua identità lacerata.
Ecco, a me sembra che oggi, predomini una cultura “giuridica” fondata sulla identificazione con il colpevole, cui devono essere concesse tutte le garanzie possibili.
Non sono un forcaiolo, ma ritengo che il passaggio da una “giustizia giustizialista” ad una “giustizia riparativa” debba fondarsi su una attenzione adeguata nei confronti della vittima e del colpevole.
Il rispetto della persona che vive un una comunità, intesa come insieme di persone in relazione fra loro, comporta di ripristinare il principio etico di responsabilità, con le più opportune graduazioni e priorità.
Fra la vittima e uno stupratore chi ha più responsabilità?
Fra un bruto massacratore di un minore o di una persona anziana chi deve essere prioritariamente garantito?
Il richiamo alla responsabilità porta con sé diritto alla garanzia della pena, altrimenti di quale responsabilità stiamo parlando? di una responsabilità ad “elastico” che si quantifica in funzione dell’identificazione del magistrato con il “perdente”!
Il diritto della persona diventa dovere verso la comunità e viceversa.
La vita, il benessere delle persone e delle relazioni deve essere tutelato e garantito attraverso il rispetto dei principi e delle norme che quella comunità si dà essenzialmente per funzionare meglio e per permettere a tutti di dare un senso compiuto alla propria vita (questa sì che sarebbe una opportunità!).

Una modesta proposta per concludere: è così incostituzionale introdurre una norma generale che sancisca che qualunque reato commesso contro una persona più debole (un bambino, un anziano, un animale, ecc.) comporti tout court il raddoppio della pena?

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Circa l'autore:

Dr. Roberto Calia Psicologo Psicoterapeuta Milano
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