Il coraggio

Il coraggio e la paura

“Un giorno la paura bussò alla porta.
Il coraggio andò ad aprire e non trovò nessuno.”
(M. Luther King)

Contrariamente a ciò che comunemente si pensa, il coraggio non è l’opposto della paura.
Non significa assenza di paura, ma capacità di affrontare la paura.
Avere coraggio vuol dire affrontare gli ostacoli che si frappongono al nostro cammino, NONOSTANTE la paura.
Ostacoli che qualche volta sono esterni, reali, ma più spesso sono dentro di noi, paure ingigantite dalle nostre insicurezze, dal nostro stesso modo di saper accogliere e accettare le prove inevitabili della vita.
La paura originaria, la “madre” di tutte le paure, è la “paura di non farcela”, di essere inadeguati o non all’altezza di affrontare le cose.
Così tutto quello che ci fa paura assume il potere di inibirci, bloccarci, impedirci di andare verso ciò che desideriamo.
Un potere che le cose in sé non hanno, ma che attribuiamo loro, proiettando “fuori” le nostre insicurezze interne.
Il coraggio allora non è annullare la paura, ma piuttosto far prevalere il convincimento che c’è qualcos’altro più importante della paura stessa.
Qui sta la differenza fra la passività rassegnata, che trova nel lamento il suo rituale consolatorio, e l’assunzione consapevole della responsabilità della propria vita.
Questo segna il passaggio dal pensiero all’azione, dal sogno alla realtà.
“Blocchi il tuo sogno quando consenti alla tua paura di crescere più della tua fede” (M.M. Morrissey).

Il richiamo al coraggio sembra più facile da evocare quando siamo di fronte al dolore e alle difficoltà.
“Per essere felici ci vuole coraggio” (K. Blixen).
In che senso invece ci vuole coraggio per andare verso la felicità?
Sembra paradossale ma è frequente incontrare chi ha paura della felicità, una paura subdola, perché negata, camuffata dall’apparente convinzione di desiderare il meglio, di fronte ad una realtà che sembra accanirsi contro di noi.
Aspiriamo all’autorealizzazione, a sviluppare tutte le nostre potenzialità, eppure sabotiamo inconsapevolmente i nostri traguardi, i nostri obiettivi.
Non è patologia, ma una sottile paura del successo, della realizzazione dei nostri sogni.
La felicità ci fa paura perché significa affermare il proprio diritto a vivere, ad amare ed essere amato.
E ciò a livello profondo è vissuto come egoismo, come colpa.
“Sono proprio sicuro di meritare di essere felice, rendere reali, veri e concreti i miei desideri; che diritto ho ad ottenere più dei miei genitori, i miei fratelli, i miei amici e perfino dei miei nemici?!…”
Essere felice implica dover, sia pure solo simbolicamente, separarsi da molte persone e molte cose del nostro passato, andare oltre i sensi di colpa e di onnipotenza.
E poi, una volta raggiunta questa agognata felicità, altra paura: “sarò capace di mantenerla, o dovrò sopportare di nuovo il dolore di perderla e di ritornare alla mia precedente condizione?”
Al di là del mito odierno della felicità a tutti i costi, che rende psicopatologica la sua rincorsa, prefigurando un’ideologia delirante di piacere e felicità come stato permanente di esaltazione, quello che difetta è sostanzialmente il coraggio di vivere una vita “normale”, di aspirare cioè ad una condizione stabile di serenità e di accesso alle gioie della “quotidiana banalità del reale”.
Preferiamo accontentarci di sognare, attribuire colpe e responsabilità agli altri, illuderci di differire in un futuro remoto la conquista del Paradiso, rinunciare di fatto piuttosto che rispettare la via indicata dalla nostra natura interiore ed andare incontro al nostro destino.
“Chi si accontenta gode…”, è la consolazione finale, ipocrisia spacciata per finta umiltà, di chi vuole nascondere, soprattutto a se stesso, il sentimento di vergogna e di mortificazione di sé, per aver rinunciato a realizzare se stesso e perso per sempre il vero “gusto della vita”.

Il coraggio non è assenza di paura

“Il coraggio non è l’assenza di paura, ma piuttosto il giudizio che c’è qualcos’altro più importante della paura” (A. Redmoon).

L’assenza di paura di fronte ad un pericolo (non importa se reale e presunto) non denota coraggio, ma incoscienza o indifferenza.
Quando un obiettivo o qualcosa da raggiungere sono per noi importanti, una certa dose di ansia, di timore e di incertezza è persino positiva per aiutarci ad affrontare l’ostacolo con la giusta attenzione e determinazione.
“Il coraggio è resistenza alla paura e dominio della paura, ma non assenza di paura” (M. Twain).
È normale che esista la paura, che è un’emozione primaria, presente in modo innato in ogni uomo, l’importante è che sia accompagnata dal coraggio. Lasciarsi sopraffare dalla paura diventa un ostacolo che impedisce di andare avanti.
Quando incontri una montagna lungo il tuo cammino, se non ti arrampichi, certo non corri il rischio di cadere.
Ma se il traguardo è al di là dell’ostacolo, restare sul terreno pianeggiante non ti darà gioia.
Avrai evitato la paura, ma non il senso di vergogna verso te stesso per aver rinunciato a qualcosa cui tenevi e che in fondo forse ti meritavi.
I tuoi obiettivi, i tuoi problemi non li risolve nessuno. Sono tuoi e tocca a te affrontarli.
Aver coraggio significa dunque saper resistere e dominare la paura.
Coraggio è vincere la ritrosia a rinunciare, a fuggire dal pericolo, o semplicemente dalle proprie responsabilità.
Tutte le volte che indietreggiamo, che non scegliamo, che facciamo scelte condizionate dalla paura, o addirittura rinunciamo a qualcosa per paura, la paura aumenta di un punto, le diamo forza, ingigantiamo i nostri “nemici interni”, ci consegniamo all’ignavia. La paura appare man mano più imponente e sempre più insormontabile.
“Non è perché le cose sono difficili che non osiamo, è perché non osiamo che sono difficili” (Seneca).

Così facendo infliggiamo una ferita al nostro Sé, mortifichiamo il sentimento di noi stessi, miniamo la nostra autostima. Il senso di colpa che spesso si accompagna alla paura, si trasforma in vergogna di sé, un sentimento assai più devastante della paura stessa.
Guai dunque a rinunciare alle nostre idee, i nostri sentimenti, i nostri desideri per paura!
È necessario imparare a fare amicizia con la paura, a non trasformarla nella “paura della paura”, ossia in pre-occupazione costante e sistematica di tutto; occorre averne consapevolezza profonda, rispettarla come parte di noi.
Al fondo di ogni paura, la “madre” di tutte le paure, c’è solo la convinzione sbagliata di essere inadeguati, di non essere in grado di affrontare quello che ci appare come un pericolo insormontabile.
“Spesso nella vita non sono le ali a mancare, ma il coraggio di usarle.”
Se ci assumiamo questa responsabilità, la paura di sbagliare, l’angoscia del pericolo diventa meno invalidante e possiamo sentire crescere lentamente dentro di noi una forza, prima flebile poi più decisa, che ci fa avere tutto il coraggio necessario per non aver paura.
E per andare incontro al nostro destino.

Il coraggio di cambiare

“Sono disposto a combattere fino alla morte pur di ottenere quello che voglio…”. Quante volte abbiamo sentito questa affermazione, o l’abbiamo fatta noi stessi.
Peccato che il più delle volte non conosciamo con chiarezza e in profondità quello che vogliamo veramente, non siamo in contatto con i nostri veri desideri, non siamo in linea con le nostre radici profonde.
Così i nostri sforzi malauguratamente diventano: “non so cosa voglio, faccio mille cose ma non ottengo nulla”.
Combattiamo una battaglia pieni di dubbi e tentennamenti, dall’esito certo: non raggiungiamo nessun risultato!
Se vogliamo realizzare i nostri desideri (quelli veri, essenziali, le priorità della nostra vita), dobbiamo prima di tutto conoscerli, altrimenti rincorriamo falsi bisogni, desideri indotti dagli altri e dalla realtà esterna.
“Per scoprire come spingerti oltre i tuoi limiti devi prima capire quali sono le paure che ti impediscono di farlo. Altrimenti resti fermo al punto di partenza, pieno di buoni propositi ma senza compiere alcuna azione” (V. Bilotta).

La conoscenza di se stessi è il principale strumento della vita, perché ci consente di orientare il nostro cammino, facendo le scelte migliori, quando possibile, oppure “le meno peggiori”, in condizioni di avversità.
Non è detto che ce la faremo, che troveremo sempre la strada giusta, ma potremo almeno smettere di rincorrere i desideri e i bisogni degli altri.
Altrimenti il nostro sogno personale di essere se stessi, fino in fondo, in allineamento alla nostra natura più autentica, può trasformarsi in un incubo: il disagio di vivere.
Non solo depressione, ansia, attacchi di panico, disturbi dell’identità.
Il tradimento di sé stessi è vissuto inconsciamente forse come la perdita più grave, il lutto peggiore che non vorremmo mai affrontare.
Per affrontare questo mal di vivere dobbiamo vincere una sola paura: la paura di non farcela, di non essere in grado di affrontare la paura stessa.
Se l’affrontiamo, impareremo ad affrontare tutte le altre paure, che da questa derivano.
E qui è in gioco qualcosa di cruciale per il nostro destino personale: il coraggio di essere se stessi e di realizzare il nostro scopo di vita.

Il coraggio di essere se stessi

“Rimanere se stessi in un mondo che giorno e notte si adopera per trasformare ciascuno di noi in un essere qualsiasi vuol dire combattere la battaglia più dura della vita” (R. Battaglia).

Viviamo in un mondo che predilige gli individui (uguali, indifferenziati, consumatori, passivi) e non le Persone (uniche e irripetibili, responsabili, creative, protagoniste attive).
Essere se stessi è diventata la cosa più difficile della vita.
Molti non sanno nemmeno più cosa voglia dire essere se stessi, avendo ormai un’idea di sé che si confonde con quello che gli altri pensano o vogliono per noi, oppure con ciò che pensiamo di essere (una sorta di teoria di se stessi!)
La funzione dell’educazione dovrebbe essere quella di aiutarci fin dall’infanzia a non emulare nessuno, andando oltre l’imitazione e l’identificazione parziale con gli altri (normale nelle prime fasi dello sviluppo), ma a scoprire ciò che siamo, nella nostra natura profonda e rafforzarci abbastanza per esserlo sempre e per restarlo: la nostra Identità unica, irripetibile, imperfetta.
E questa è una cosa difficilissima da fare: essere sempre ciò che siamo, avendolo compreso, che siamo brutti o belli, alti o bassi, forti o fragili, leader o gregari.
Ognuno di noi nasce con un bagaglio ereditario, con un temperamento (che non va confuso con il carattere che è altra cosa) che demarcano limiti e potenzialità.
Ma ognuno di noi ha anche i propri talenti, i propri “doni” che deve essere in grado di espandere e restituire alla vita.
È relativamente facile vivere adattandosi all’opinione comune, tenendo in privato le proprie idee e aspirazioni. È da grandi uomini invece rimanere fedeli a se stessi, affermando nella vita sociale la singolarità delle proprie convinzioni.
L’uomo che non vuole appartenere alla massa, che vuole transitare da individuo a persona, deve avere carattere e personalità per non essere troppo accomodante verso le richieste del mondo esterno.
Deve saper seguire l’istinto, l’intuito e la ragione, in una sintesi che lo allinea al suo scopo di vita.
La coscienza di sé, unita ad una consapevolezza matura, è in grado di guidarci verso la meta.
Una perenne aspirazione a rinnovarsi ci aiuterà a completare il percorso, utilizzando l’anelito universale a realizzare al meglio il proprio Sé, che è persistente, eterno e in costante divenire.
Essere ciò che siamo e diventare ciò che siamo “nati per essere” è il forse il fine principale della vita.
“Se guardate quello che siete realmente, e lo capite, allora nella comprensione stessa c’è la trasformazione” (J. Krishnamurti).
Per diventare Persona bisogna allora “far fuori” (nel senso di espellere dalla nostra mente, rendersi autonomi) tanta gente e tante cose che ci impediscono di essere noi stessi.
“Si nasce non soltanto per morire, ma per camminare a lungo, con piedi che non conoscono dimora e vanno oltre ogni montagna” (A. Merini).
Il problema non è la morte in sé, che è connaturata alla vita, al fluire costante del divenire, ma il VIVERE.
Quello che fa della nostra esistenza una vita piena è come spendiamo quel tratto, spesso o sottile, lungo o breve, che ci è dato nell’intervallo fra la nascita e la morte.
E allora è sicuramente meglio essere diverso, ribelle e sognatore, piuttosto che vuoto, codardo e rassegnato.
Se non vai incontro a ciò che desideri, ti tocca prendere ciò che i bisogni (i tuoi e quelli degli altri) ti riservano.

“Bisogna pur metterlo, il punto. Alla fine di una frase. Alla fine di una storia. Si chiama ortografia.
O, più comunemente, coraggio” (cit.).

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Circa l'autore:

Dr. Roberto Calia Psicologo Psicoterapeuta Milano
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