Mi piego ma non mi spezzo
“Quando la vita rovescia la nostra barca, alcuni affogano, altri lottano strenuamente per risalirvi sopra. Gli antichi connotavano il gesto di tentare di risalire sulle imbarcazioni rovesciate con il verbo ‘resalio’. Forse il nome della qualità di chi non perde mai la speranza e continua a lottare contro le avversità, la resilienza, deriva da qui.”
(P. Trabucchi)
In campo psicologico si usa da tempo il termine “resilienza” per indicare la capacità di persistere nel perseguire le mete della nostra vita, fronteggiando le inevitabili difficoltà, le crisi e gli eventi negativi che incontriamo sul nostro cammino.
La resilienza designa dunque la tenuta e l’atteggiamento di andare avanti senza arrendersi, nonostante le difficoltà.
La resilienza non va intesa come l’opposto della fragilità. Secondo un imperativo culturale odierno, dobbiamo essere “forti” a tutti i costi, non dobbiamo avere debolezze. Essere sensibili ed emotivi sarebbe un difetto, la causa delle nostre sofferenze e patologie.
Secondo la mia visione, essere forti e resilienti significa essenzialmente essere consapevoli, in profondità ed autenticità, di se stessi, dei propri pregi e delle proprie debolezze.
Con questo assetto mentale basilare, è possibile “affinare” la resilienza, con buone pratiche che la psicologia oggi è in grado di proporre (dall’intelligenza emotiva alla mindfulness).
La persona che ha resilienza può guardare le cose con maggior ottimismo, leggendo gli eventi negativi come momentanei e circoscritti. Riesce a vedere i cambiamenti come sfide ed opportunità piuttosto che come una minaccia.
Di fronte a cadute, sconfitte e frustrazioni è capace di non perdere comunque la prospettiva e la speranza, ma di mantenere la motivazione a raggiungere gli obiettivi che sta perseguendo, in coerenza con i propri scopi di vita.
La forza e la resilienza
“Tutti abbiamo dentro un’insospettata riserva di forza, che emerge quando la vita ci mette alla prova” (I. Allende)
La vera “forza” non consiste quindi nella veemenza con cui reagiamo alle cose, né nella violenza che usiamo contro gli altri.
Una forza autenticamente vitale risiede nella capacità di governare se stessi, nel saper tenere a bada le propri pulsioni, saperle trasformare in emozioni e coltivarle come desideri.
In questo senso, tutti dovremmo essere più forti, dovremmo essere più “potenti”, dotati non di un potere di sopraffazione, ma di un potere di trasformazione.
Questa forza mentale deriva dalla riconciliazione con se stessi, dalla ritrovata fiducia in se stessi, dal superamento dei tormenti del passato e dall’abbandono definitivo di tante illusioni, che in genere ci trasciniamo per la mancanza di accettazione delle nostra storia.
Il recupero dell’amore di sé diventa il preludio della vera capacità di amare e di accogliere l’altro.
Questa è la forza dell’autorevolezza, un’energia potente ma pacata, non autoritaria ma liberatrice.
Una forza generativa di luce nei nostri affetti, nelle nostre relazioni e nel mondo, dove noi portiamo responsabilmente non più la “volontà di potenza” ma la “potenza della volontà”.
“Non darti mai per vinto. Allarga il cuore. Non consumare troppa energia per sviluppare la mente anziché il cuore. Sii compassionevole. Impegnati per portare pace nel tuo cuore e nel mondo. Non cedere.Qualunque cosa accada, qualunque cosa succeda intorno a te, non darti mai per vinto” (Dalai Lama).
L’importante è partecipare è la consolazione dei perdenti. Vincere è essenzialmente meglio!
Le prove della vita
“Se trovi un sentiero senza ostacoli, probabilmente non va da nessuna parte” (F.A. Clark)
La vita ci sottopone inevitabilmente a molte prove (delusioni, dolori, tradimenti, fallimenti, abbandoni, perdite…). Le situazioni difficili mettono “alla prova” la nostra tenuta fisica, mentale e spirituale. Misurano la nostra fede verso la Vita (anche in senso religioso), la nostra fiducia verso noi stessi e la nostra visione del futuro.
Quando dobbiamo affrontare una situazione imprevista, siamo costretti a rientrare più profondamente in noi stessi, a raccogliere le forze (come si suole dire) e a prodigarsi per arginare la sofferenza. Interpella la nostra resilienza.
Nel momento in cui dobbiamo attraversarle, pensiamo spaventati di non avere la forza per affrontarle.
Molti cercano di sfuggire alle prove, negandole illusoriamente oppure ricercando all’esterno presunti “colpevoli”.Ogni volta che la vita ci pone di fronte ad un problema, un ostacolo o anche una semplice contrarietà, la nostra prima reazione è di irritazione e rifiuto.Quasi non ce l’aspettassimo, ci chiediamo: “perché proprio a me?!”
La medesima cosa, quando capita agli altri, riceve da noi “tutta la comprensione possibile!”. Persino i più gravi fatti di cronaca che leggiamo sui giornali, le grandi tragedie della vita, vengono da noi razionalmente considerati come “cose che capitano”, normali “eventi della vita”.
Quando invece siamo noi ad essere sottoposti ad una qualche prova dalla vita è diverso, tendiamo a considerarlo anomalo, siamo pronti a sentirci sfortunati, vittime dalla cattiva sorte. La prima risposta istintiva è ricercare un colpevole, tiriamo in ballo Dio, il destino, il governo, mariti, mogli, figli, amanti, vicini o semplicemente “chiunque” altro! Perché se non ci fosse una ragione, un colpevole, a noi quella cosa lì non doveva capitare! E quando non lo troviamo, ecco che il colpevole siamo noi: quindi “sensi di colpa” e autoflagellazioni interminabili.
I problemi non si affrontano andando a scovare veri o presunti colpevoli, ma cercando soluzioni, vere, concrete, fattibili, non fughe illusorie o fantasie irrealistiche.
Quindi, tutto ciò che consideriamo normale per gli altri, per noi diventa inaccettabile, impossibile!
È come se, in fondo in fondo dentro di noi, ci fosse una sorta di aspettativa di immunità, una promessa di intoccabilità. “Ma come? ci era stato detto che saremmo stati felici, e ora invece siamo infelici ed angosciati di fronte a questa prova, a questo mostro insormontabile!”…
Di fondo c’è un “equivoco” psicologico. Da un lato, sul piano razionale (con la testa), sappiamo che la vita comporta INEVITABILMENTE difficoltà e problemi.
Dall’altro, emotivamente (con la pancia), un residuo di pensiero magico infantile ci fa sentire come bambini impauriti, arrabbiati e delusi, pronti a rivendicare l’intervento risolutivo di altri (i genitori un tempo, amici, parenti, amministratori, politici ora).
Così facendo coltiviamo l’illusione di poter ancora dipendere da qualcun altro: cosa che, non solo è una mera illusione, ma di fatto diventa la rinuncia alle nostre possibilità di superare l’ostacolo da noi stessi.
Le prove che si presentano ripetutamente nel corso della vita non sono incidenti di percorso, rappresentano piuttosto (dato che non si possono evitare, nemmeno a volerlo!) un’opportunità per incontrare noi stessi e il senso stesso della nostra esistenza.
“Conosciamo noi stessi solo fin dove siamo stati messi alla prova” (W. Szymborska)
Ogni prova che la vita ci mette davanti non è lì “per caso”, è sempre in qualche modo connessa con noi, rimanda ad una qualche nostra “responsabilità”, ci ingaggia personalmente.
Va ineluttabilmente accettata, non dico volentieri, ma come un passaggio obbligato nella scala della vita.
“La vita è per il 10% cosa ti accade e per il 90% come reagisci” ( C.R. Swindoll).
La vita non è quella che dovrebbe essere o avrebbe potuto essere. È quella che è, quella che anche inconsapevolmente abbiamo contribuito a determinare.
Il problema allora non è il problema in sé ma la modalità in cui reagiamo di fronte a quel problema. È il modo in cui l’affrontiamo che fa la differenza, fra l’accettare la prova o rifiutarla, fra viverla come occasione di crescita o porsi con l’atteggiamento della vittima. E questo determina in modo sostanziale le possibilità di superare la prova, di andare oltre il problema, oppure di tentare di differirlo, aspettando una soluzione che viene dagli altri, e che spesso compromette pesantemente la nostra condizione presente e futura.
Se così è, allora vuol dire che abbiamo SEMPRE in noi stessi le possibilità di trovare le risposte più adeguate. Anche quando la soluzione non è quell’ “ideale che avremmo voluto”.
Di fronte agli eventi dell’esistenza dobbiamo far leva sulle nostre capacità di gestione dell’ansia e di tenuta emotiva (la nostra difficoltà, la nostra frustrazione è “normale” in relazione al peso dei problemi, non è depressione, come spesso siamo indotti a credere!).
La nostra natura non ci consente di rimanere nella prova per troppo tempo.Daremmo alle nostre difficoltà un potere che in sé non hanno, quello di bloccarci e di impedire così che la nostra energia vitale possa fluire e trasformarci.
Visto che non è in nostro potere evitarle, dobbiamo imparare ad accoglierle come opportunità: le prove sono il mezzo attraverso cui entriamo in contatto con il cuore, il nostro e quello delle altre persone.
“Sono le difficoltà che fanno nascere i miracoli” (W.F. Sharpe).
Hanno lo scopo di insegnarci a diventare più compassionevoli, saggi e in sintonia con lo scopo della vita. Ecco perché è necessario potenziare la nostra resilienza.
A mente serena, quando il tunnel è stato attraversato, e il problema è alle spalle, le prove che abbiamo affrontato e superato appaiono per quello che effettivamente sono: ora tragiche, ora drammatiche, ora semplici routine quotidiane e qualche volta persino risibili.
Cicatrici: il valore della resilienza
“Non mi pento dei momenti in cui ho sofferto. Porto su di me le cicatrici come se fossero medaglie” (P. Coelho)
Quando si rompe un oggetto (una ciotola, una teiera o un vaso prezioso), noi in genere lo buttiamo, pur con rabbia e dispiacere. Una antica pratica giapponese mostra invece che c’è un’alternativa. Fa l’esatto opposto di noi, raccoglie i cocci frantumati, li mette insieme, evidenzia le fratture, le impreziosisce e aggiunge valore all’oggetto rotto.
Si chiama kintsugi (金継ぎ), o kintsukuroi (金繕い), letteralmente oro (“kin”) e riunire, riparare, ricongiungere (“tsugi”).
Quest’arte giapponese prescrive l’uso di un metallo prezioso – che può essere oro o argento liquido o lacca con polvere d’oro – per riunire i pezzi di un oggetto di ceramica rotto, esaltando le nervature create. La tecnica consiste nel riunirne i frammenti dandogli un aspetto nuovo attraverso le fratture che risultano così impreziosite.
Con questa tecnica si creano vere e proprie opere d’arte, sempre uniche, ognuna con la propria trama da raccontare, ognuna con la propria bellezza da esibire; questo proprio grazie all’unicità delle crepe che si creano quando l’oggetto si rompe, come fossero le ferite che lasciano tracce diverse su ognuno di noi. Così le cicatrici diventano bellezza da esibire.
L’arte di “abbracciare il danno”, di non nascondere o vergognarsi delle ferite, è la delicata lezione simbolica dell’antica arte del kintsugi, che suggerisce parallelismi suggestivi.
Non si deve buttare ciò che si rompe. Si deve tentare di riparare, e nel farlo si può guadagnare “valore”. Le rotture possono diventare trame preziose. È l’essenza della resilienza.
Crisi e resilienza
“La parola crisi, scritta in cinese, è composta da due ideogrammi. Uno rappresenta il pericolo, l’altro rappresenta l’opportunità” (J.F. Kennedy).
Perseguire la realizzazione di sé come bene, come “stare bene”, come ESSERE e non come AVERE, porta inevitabilmente ad incontrare il suo contrario: il male, l’insuccesso, il fallimento e l’errore. Fa parte del gioco “tragico” della vita, non può essere visto come sfortuna, destino, colpa.
Quando capita agli altri siamo capaci di accettarlo, di consolare, di giustificare. Quando capita a noi, lo viviamo come maledizione, stentiamo a capirlo e ad accettarlo!
Una crisi non porta soltanto angoscia e sgomento, non è definitivo fallimento. La crisi porta con sé un’opportunità, la possibilità di ridefinirci, di appellare la nostra coscienza, di intraprendere nuove strade. Ci dice che forse è arrivato il momento di diventare finalmente più autonomi, liberi interiormente. È arrivato il momento di una nuova rinascita psicologica.
Il problema quindi non sono gli errori o le cadute, ma è come reagiamo di fronte alle avversità. Gli errori non sono i “nemici”, possono invece diventare i nostri più preziosi alleati, se sappiamo coglierne il significato. Ma è necessario (e sufficiente) che ti rialzi una volta in più delle tue cadute!
Nelle crisi (che in greco etimologicamente significa proprio “frattura”) che tutti, prima o poi e spesso ripetutamente, attraversiamo, siamo quindi chiamati a far fronte in maniera positiva agli eventi traumatici, di crescere attraverso le esperienze dolorose, di valorizzarle, non nasconderle, e convincersi che sono proprio queste in fondo che rendono ogni persona unica e irripetibile. Tutti siamo stati feriti, alcuni di noi più di altri. Ci portiamo dentro le ferite dell’infanzia.
Le “cicatrici” che rimangono nella nostra psiche sono mappe segrete delle storie personali, diagrammi delle vecchie esperienze.
“Le anime più forti sono quelle temprate dalla sofferenza. I caratteri più solidi sono cosparsi di cicatrici” (K. Gibran).
Anche le nostre ferite psicologiche possono dunque essere “riparate”. L’oggetto “rotto” (una relazione, un’esperienza, un ricordo) può essere ricomposto dalle sue fratture, anche se non sarà più quello di prima.
Il dolore e le emozioni che accompagnano ogni rottura possono diventare l’oro che dà un valore aggiunto alla riparazione e alla ricomposizione del nuovo rapporto. La ferita diventa così l’opportunità per crescere, per un’ulteriore rinnovamento: una rinascita nella continuità e nel rispetto della nostra identità.
I nostri dolori, i nostri fallimenti, le nostre perdite, non sono dunque incidenti di percorso. Sono prove lungo il cammino della nostra esistenza.Rappresentano un’opportunità per incontrare noi stessi e il senso stesso del nostro essere al mondo.
Spesso, a posteriori, ci accorgiamo che molti problemi della vita sono più immaginari che reali. Sono determinati più dalla nostra sproporzionata reazione che non dal problema in sé.
Si riferiscono cioè più al nostro mondo interno (idee e pensieri) che non ad oggettive situazioni della vita (realtà).
Poiché tutto ha un senso, quindi anche le avversità che incontriamo, se ci assumiamo la responsabilità di ciò che ci accade, possiamo ritrovare ciò che è in nostro “potere”: la forza per reagire e la capacità di far fronte alla paura e al dolore che le accompagna.
Vivendole con consapevolezza e responsabilità, smettendo finalmente di sentirci “in colpa per colpe che non abbiamo commesso” o, al contrario, “vittime del destino”, avremo la possibilità di riconoscere che non erano così terrificanti o insormontabili, come le avevamo vissute all’inizio.
Possiamo allora accoglierle come “benedizioni”, come accadimenti non casuali che saranno comunque serviti a rafforzare il senso della nostra esistenza e le competenze (soprattutto mentali e spirituali) necessarie a viverla con pienezza.
“Sono quel che sono.
Avendo fede nella bellezza dentro di me, sviluppo fiducia.
Nella dolcezza ho forza.
In silenzio cammino con gli Dei.
In pace capisco me stesso e il mondo.
Nel conflitto mi allontano.
Nel distacco sono libero.
Nel rispettare ogni creatura vivente, rispetto me stesso.
In dedizione onoro il coraggio dentro di me.
In eternità ho pietà per la natura di tutte le cose.
In amore accetto incondizionatamente l’evoluzione degli altri.
In libertà ho potere.
Nella mia individualità esprimo la Forza divina che è dentro di me.
In servizio do quel che sono diventato.
Sono quel che sono:
Eterno, immortale, universale e infinito.”
MAR
Circa l'autore:
Dr. Roberto Calia Psicologo Psicoterapeuta Milano