Solitudine

Solitudine buona e cattive compagnie

“La persona che sa stare da sola non è mai sola.
La persona che non sa stare da sola, è sola”

(Osho)

Non la depressione, come pretende certa psichiatria odierna, ma la solitudine è il male del secolo.
Non solo la solitudine dei vecchi dimenticati dai figli e dalla società, ma la solitudine come vissuto sociale di base, come singolitudine ed autoreferenzialità, dove ognuno vive drammaticamente su se stesso e sopravvive cercando continue (e spesso disperate) compensazioni.
La solitudine si manifesta sia nel narcisismo cinico ed egoista di chi nega il terribile senso interiore di inconsistenza, sia nell’iperattivismo relazionale di chi è costantemente “connesso” con tutti (e quindi con nessuno).
Il concetto di solitudine è molto frainteso.
La sola parola solitudine suscita angoscia, rimanda in genere a sentimenti negativi.
Si associa al sentirsi soli, senza più relazioni significative con persone e oggetti della vita.
Il pensiero va ad uno stato di isolamento, di allontanamento dalla vita, associato all’idea di essere stato abbandonato.
In tal senso è la modalità mentale tipica della depressione.
Quando soffriamo di solitudine è perché in realtà stiamo intimamente piangendo per la perdita affettiva di un oggetto interno, qualcosa di simile ad un lutto (che è invece la perdita reale di una persona amata).
Nel dolore depressivo esprimiamo il desiderio di essere amati.
La solitudine come abbandono ci fa sentire come “morti” agli interessi degli altri e questo non può che portare depressione e svalutazione di sé.
“La vera tristezza non è quando, la sera, non sei atteso da nessuno al tuo rientro in casa, ma quando tu non attendi più nulla dalla vita. E la solitudine più nera la soffri non quando trovi il focolare spento, ma quando non lo vuoi accendere più” (T. Bello).

Quando invece stiamo bene con noi stessi, l’essere soli non è sentito come solitudine.
Se “sentirsi” soli è l’assenza dell’altro, “essere” soli è la presenza di se stessi: uno stato, fisico, psichico e concreto in cui, nel piacere della nostra presenza esprimiamo l’amore per noi stessi.
Quello che fa la differenza è il vissuto soggettivo della solitudine.
Stare attivamente da soli, in compagnia di se stessi, è uno stato mentale ben diverso dal sentimento di “essere abbandonato”, che caratterizza la solitudine angosciante, subita passivamente, di chi si sente isolato ed emotivamente distante ed escluso dagli altri.
“La solitudine a volte è la miglior compagna. Non fa mai domande inopportune e spesso dà delle risposte” (G. Martufi).
La capacità di stare da soli (quindi in compagnia di se stessi) è la base vera della capacità di amare.
Osho distingueva nettamente l’isolamento dalla solitudine.
“L’isolamento è uno stato in cui sei malato, annoiato e stanco di te stesso, per cui desideri trasferirti altrove e dimenticare te stesso in qualcun altro.
Solitudine significa che sei solo te stesso e nessun altro. La solitudine è presente quando è il tuo stesso essere a farti fremere, quando sei in uno stato di beatitudine semplicemente a causa del tuo stesso essere.
L’isolamento scomparirà, mentre affiorerà la solitudine. Non hai bisogno di andare in alcun posto, perché il bisogno è scomparso. Basti a te stesso. Semplicemente te stesso.”

Riprendendo Emily Dickinson che diceva “Forse sarei più sola senza la mia solitudine”, potremmo dire che saper ascoltare la propria solitudine, senza sentirsi abbandonati, è come mettersi in contatto con se stessi: se ci prendiamo carico di noi stessi, la solitudine va sullo sfondo e possiamo fruire dell’unico vero rapporto che dipende totalmente da noi e non dagli altri.
Questa accezione più profonda e positiva della solitudine coincide con quello che Gaber descriveva come lo “star bene in propria compagnia”.

Solitudine schizoide

È la solitudine del nucleo più profondo di sé, dove è riposta la parte più vera ed autentica di se stessi (metaforicamente: il tuorlo dell’uovo, il cuore della persona).
È la fonte della creatività, dei nostri talenti, delle nostre migliori risorse.
Perché ai più non è noto ed accessibile questo “luogo”?
È perché il Sé infantile non è stato sufficientemente ed adeguatamente sostenuto durante lo sviluppo del bambino.
Il Sé è percepito come fragile, frammentato, traumatizzato dall’inadeguatezza e perennemente alla ricerca della riparazione di questo deficit originario (Balint lo definiva come il “difetto fondamentale”).
È quindi arroccato a difesa di questa presunta fragilità, difficilmente aperto alla fiducia e all’amore.
È la nemesi della relazione: “ho talmente bisogno di essere amato, al punto da essere terrorizzato dal rapporto con l’altro. Quindi non amo per non rischiare di essere abbandonato.”
Non ci potrà mai essere alcun “risarcimento” per questo presunto danno da abbandono, perché nessuno è tenuto né può essere in grado di riparare il passato di un altro.
L’unica possibilità di salvezza è il rafforzamento dell’adulto del presente, il solo che può avere accesso al “bambino interiore”, a quello che siamo stati nella nostra infanzia.
Con molta pazienza e dedizione, può ridargli fiducia e convincerlo a uscire dai recessi in cui si è nascosto, per portarlo mano nella mano ad affrontare la vita.

C’è dunque un altro tipo di solitudine, che si identifica non con l’abbandono, non con la perdita, ma con il fare riferimento a se stessi.
Io sono solo in compagnia di me stesso, mi basto, posso contare fiduciosamente su me stesso e da qui posso rapportarmi agli altri, non per riempire un vuoto, ma per arricchire ulteriormente ciò che già mi appare “sufficientemente appagante”.
Il Sé è al centro ma non in modo narcisistico, considera se stesso al pari degli altri, riconoscendosi pari dignità, rispetto, diritti.
È la solitudine matura di chi sa stare in compagnia di se stesso, sa godere dell’essere solo non come abbandono ma come scelta, per essere pronto ad assaporare la relazione profonda ed autentica persona-persona.
“Una delle cose più belle nella vita, è trovare qualcuno che riesce a capirti, senza il bisogno di dare tante spiegazioni” (K. Gibran).
L’amore dell’altro non è più necessario come un bisogno vitale, una dipendenza, una mancanza intollerabile, ma come “lusso” che arricchisce e riempie di valori reciprocamente.
Ecco perché quando si ama una persona, viene spontaneo chiamarla “tesoro”!

Solitudine senza abbandono

“Paradossalmente, la capacità di stare soli è la condizione prima per la capacità d’amare” (E. Fromm).
La possibilità di amare autenticamente l’altro nasce dunque dalla capacità di stare da soli, e non viceversa.
Parliamo dell’Amore con la A maiuscola, inteso come parità, reciprocità e simmetria, dove finalmente si realizza il precetto di Gesù sull’amore terreno, come anticipazione dell’amore divino: amare il prossimo come se stessi, non di più ma neanche di meno, proprio perchè non c’è differenza fra me e gli altri, e tutti siamo “prossimo” rispetto all’altro.
Il paradosso di Fromm è solo apparente. Ci sono infatti solitudini buone (rare), e ci sono (tante) cattive compagnie.
“C’è chi soffre e chi s’offre: la differenza sta solo nell’apostrofo”: se la solitudine è sofferenza, finisci inevitabilmente per offrirti, ti esponi a pietire l’approvazione e il gradimento degli altri; non scegli tu, ti lasci scegliere, dipendi dagli altri.
La solitudine più penosa infatti non si avverte quando siamo soli.
C’è una solitudine ancora più devastante ed è quando ci sentiamo soli in presenza di altre persone.
Persone che ci guardano, senza vederci; che ci sentono, ma non ci ascoltano.
O, ancora peggio, che ci giudicano, senza conoscerci veramente.
Essere soli è allora diverso dal “sentirsi soli”, che invece è assimilato all’ “essere abbandonato”.
Se ci riconciliamo con noi stessi, se contiamo innanzitutto su di noi, imparando a star da soli, la solitudine non è più vissuta come abbandono, ma come “stare bene in compagnia di sé stessi”.
Non è la solitudine depressiva quindi, ma stare in relazione con se stessi.
Se abbiamo recuperato un buon rapporto con noi stessi, stare soli è la “compagnia” più sicura e stabile.
“Soltanto i più forti fanno i conti con la solitudine, gli altri la riempiono con chiunque” (V. Lika).
Senza questa capacità, l’amore verso gli altri è solo un bisogno, un attaccamento necessario per riempire un vuoto altrimenti intollerabile.

Il privilegio di saper stare bene da soli ti regala quello più pregiato, di poter scegliere con chi stare.
Il rapporto con gli altri smette di essere una necessità, un bisogno compulsivo, una dipendenza.
Da bisogno primario diviene un desiderio privilegiato, dove l’incontro con l’altro non è un riempimento di vuoti, ma un rapporto utile ad arricchirci entrambi.
Finché non ami te stesso, non potrai mai sentirti amato profondamente.
E quindi amare veramente gli altri.
“Innamorati di te. Della vita. E dopo di chi vuoi” (F. Kahlo).
È solo nel momento in cui ritroviamo la fiducia in noi stessi e diventiamo capaci di amarci che possiamo dare fiducia anche agli altri ed amarli.
Se non impariamo ad apprezzare noi stessi, come possono pensare che gli altri ci apprezzino per ciò che abbiamo da offrire, se noi per primi non ci attribuiamo il giusto valore, se noi per primi non sappiamo riconoscere il nostro tesoro?
L’amore per se stessi non è narcisismo, che di fatto è proprio assenza di un sano amore di sé.
L’egocentrismo narcisistico è esattamente l’opposto.
La persona che non è riuscita ad amare se stessa diventa egocentrica.
Anche per Freud gli egoisti sono incapaci di amare gli altri, ma ancor più incapaci di amare se stessi.
“L’amore per se stessi implica la scomparsa del Sé. Questo è il paradosso: l’amore per se stessi è totale assenza di Sé” (Osho).
Il Sé e il non-Sé (in pratica: l’Io e gli Altri) sono uniti in una continuità indisgiungibile, all’interno di una matrice di senso.
Amore di sé e amore degli altri sono le due facce della medesima medaglia.
Io e Tu, che insieme diventiamo Noi, in una relazione simmetrica, reciproca e paritaria.

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Circa l'autore:

Dr. Roberto Calia Psicologo Psicoterapeuta Milano
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