Oltre l’angoscia del vuoto
“Noi non siano esseri terreni chiamati a vivere un’esperienza spirituale.
Siamo esseri spirituali che stanno vivendo un’esperienza terrena.”
(P. Teilhard de Chardin)
La vita può essere pensata metaforicamente come una pianta che vive nel suo rizoma: la sua vera essenza è invisibile, nascosta nel rizoma stesso. Ciò che spunta dalla superficie della terra dura solo un’estate e poi appassisce: un’apparizione effimera.
L’incessante sorgere e decadere della vita dà l’impressione di una assoluta caducità. Ma, come un rizoma, la vita non sta solo in ciò che si manifesta, di cui facciamo esperienza, attraverso i sensi e l’elaborazione cosciente.
Apollonio diceva: “Nessuno muore se non in apparenza, così come nessuno nasce davvero, anche se sembra che entri in questo mondo. Quando la coscienza passa dallo spirito alla materia, diciamo che un’anima è nata; quando passa dalla materia allo spirito, diciamo che è morta.”
In realtà la nostra essenza non nasce e non viene mai distrutta. Oltre il fluire costante dell’apparenza, qualcosa vive e perdura in eterno.
La paura della morte fa parte del naturale istinto di sopravvivenza dell’uomo. La cultura in cui siamo cresciuti chi ha insegnato che la morte sia il passare dall’Essere al Nulla. Veniamo dal Nulla e nel Nulla torneremo. Evidente che questo pensiero, questa concezione della vita sia terribile e non può che atterrire chiunque. È l’essenza del nichilismo di cui è permeata tutta la civiltà occidentale.
Eppure i grandi saggi di tutte le tradizioni e di ogni epoca dicono esattamente l’opposto, descrivendo una dimensione eterna della vita, che esisteva già prima della nascita e che non finisce con la nostra morte.
Se si rimane ancorati ad una idea della vita secondo i nostri comuni riferimenti fisici, sensoriali, razionali, la dimensione del “dopo” la morte fisica risulta per noi “inconcepibile”. Per noi la parte “senziente” è prevalente su tutto, anche se in realtà, secondo la la stessa visione scientifica prevalente, sappiamo che rappresenta soltanto una minima parte della nostra coscienza e del nostro funzionamento mentale.
“Quel che succede al di là della morte è così indicibilmente grandioso che la nostra immaginazione e il nostro sentimento non bastano a concepirlo nemmeno approssimativamente” (C.G: Jung).
Secondo René Guénon la totalità dell’Essere è data da vari livelli di realtà, ossia da un insieme di “stati molteplici dell’essere” in cui può manifestarsi l’Essere stesso; lo stato umano, quello di cui noi facciamo esperienza e che consideriamo come prevalente (e per molti esclusivo), è solo uno tra i possibili altri stati, che sono indefiniti. Essere ed Esistenza, per Guénon, non sono affatto la stessa cosa e non sono sovrapponibili a ciò che la nostra esperienza tende a descrivere come la sola esistenza possibile.
Quando si parla di “altre” dimensioni si tratta di concepirle, intuitivamente e solo per approssimazione, al di fuori della logica spazio-tempo e della coscienza cognitiva. Per i più, solo questo “pensiero” provoca l’angoscia del vuoto!
La mente (con la psiche che ne è l’espressione individuale) è infatti condizionata dalla materialità. Per questo si ammala. L’anima (espressione dello spirito) è libera, vede e sente oltre la percezione sensoriale che, attraverso vista, udito, gusto, tatto e olfatto, arriva al cervello (materia). Per questo non si ammala.
L’anima non si ammala mai, ma “soffre” quando la dimensione materiale prende il sopravvento e si disallinea rispetto alla dimensione immateriale, invisibile ai sensi ma altrettanto essenziale e tangibile; ad un minimo di riflessione non possiamo non convenire che le cose più importanti della nostra esistenza sono invisibili: emozioni, affetti, sentimenti.
La frattura fra spirito e materia, la distanza fra mente e corpo, è ciò che avvertiamo come disagio e sofferenza: questa dualità antitetica alla lunga fa ammalare il nostro corpo e la nostra mente.
È necessario allora liberare la mente dal condizionamento dei sensi e dall’attaccamento agli oggetti del mondo, che quando si fa eccessivo è il segno della sottostante angoscia del vuoto; l’eccesso di “stordimento materialistico” non è altro che la difesa psichica contro la “paura di essere niente”, che inevitabilmente accompagna tutto lo sviluppo della nostra vita e soprattutto l’esperienza che ne facciamo: così lo scorrere inarrestabile dell’esistenza, la trasformazione continua del mondo e delle cose che appaiono e scompaiono, sembrano dire ai nostri sensi è alla nostra ragione che tutto è destinato a “deperire” e “sparire”, diventare appunto nulla.
L’angoscia della morte condiziona dunque ogni nostro agire; può celarsi dietro ogni nostra scelta, ogni passaggio che implica un “oltre” e un “dopo”, la fine di qualcosa e l’inizio di un’altra, finendo con il compromettere le nostre stesse possibilità di cambiare e di evolvere: ogni cambiamento non implica forse il termine di un percorso per l’apertura di un nuovo cammino?
La morte come annientamento
La morte concepita come annientamento è l’elemento fondante del pensiero occidentale, secondo il quale ogni cosa esistente viene dal Nulla ed è destinato a tornare nel Nulla. L’Occidente concepisce il passaggio dalla vita alla morte come fosse un interruttore on-off, che passa da acceso a spento non appena il cuore smette di battere e il cervello non mostra più attività elettrica. La scienza, attaccata solo alla materia, vede la morte come la fine della vita, e dunque la tratta come un accidente, un tabù, un argomento scomodo. Prima con i miti, poi con le religioni e, infine, con la Tecnica (che il capitalismo crede, illusoriamente, di controllare), la cultura occidentale ha cercato di offrire una risposta all’angoscia della morte, del venir meno delle cose, che prima si presentano e poi precipitano nel nulla.
Oggi è soprattutto la Scienza che combatte un’illusoria battaglia contro la morte, contro il diventare nulla degli esseri viventi. Fa coincidere la vita con la manifestazione del divenire delle cose, accetta come scientifico solo ciò che “oggettivamente” appare ed è tangibile. Contrappone pragmaticamente il bios con la phisis: la vita e la morte sarebbero agli antipodi, polarità contrapposte.
Al comprensibile timore per un passaggio che non conosce, vi contrappone l’ossessione dell’eterna giovinezza e la rincorsa esasperata a fermare ogni segno dell’evolversi delle cose, identificate sul corpo e sulla mente come disagio e malattia. Un assillo angosciante che finisce con l’essere più una lotta CONTRO la vita (intesa come eterno fluire degli essenti) e non PER la vita stessa (la cui essenza possiamo cogliere in ogni sua manifestazione, nel bene e nel male, nella salute e nella malattia).
La cultura occidentale non tiene affatto conto del principio di non contraddizione secondo cui “se una cosa è non può anche non essere” (E. Severino). Dato che “l’Essere è” – afferma il filosofo Severino – non può mai diventare un Nulla. In tal senso il Nulla è la negazione dell’Essere, e dove c’è il secondo non può mai palesarsi il primo.
Ogni cosa, ogni pensiero, ogni attimo sono dunque eterni. Il divenire temporale rappresenta l’apparire successivo degli eterni stati dell’Essere, così come i fotogrammi di una pellicola si susseguono sino a formare lo svolgimento completo di un film.
Ciò significa che, quando un Essere esistente esce dal “cerchio dell’apparire”, non diviene un nulla. Le cose continuano ad esistere anche quando scompaiono ovvero non si vedono.
Il divenire è come lo scorrere degli oggetti sulla superficie di uno specchio. Le cose, infatti, esistono prima di entrare nel campo visivo dello specchio e ovviamente continuano ad esistere anche dopo esserne uscite. La vita non si conclude dunque con la nostra morte fisica.
La nostra esistenza (che ora si esprime attraverso il nostro Sé nella coscienza che abbiamo di noi stessi, come corpo e come mente) è dunque universale ed eterna: materia, luce, energia sono gli spazi (senza tempo) in cui si svolge l’eterno divenire delle cose.
La nostra essenza (Sé ontico) preesiste al corpo fisico e permane, ritornando parte di una più ampia coscienza universale.
Qui le religioni e le scienze si incontrano, per poi dividersi di nuovo nella “narrazione” del senso e del significato di questo “eterno ritorno”.
Tutto ciò che è, nella sua essenza, perdura quindi immutabile ed eterno, al di là di ogni manifestazione apparente (ossia dell’esperienza che facciamo della caducità e della impermanenza delle cose).
Ecco come il teologo e scrittore Henry Scott Holland ha descritto questa condizione in una struggente poesia che indaga il mistero eterno della morte:
“La morte non è niente.
Sono solamente passato dall’altra parte:
è come fossi nascosto nella stanza accanto.
Io sono sempre io e tu sei sempre tu.
Quello che eravamo prima l’uno per l’altro lo siamo ancora.
Chiamami con il nome che mi hai sempre dato, che ti è familiare;
parlami nello stesso modo affettuoso che hai sempre usato.
Non cambiare tono di voce, non assumere un’aria solenne o triste.
Continua a ridere di quello che ci faceva ridere,
di quelle piccole cose che tanto ci piacevano
quando eravamo insieme.
Prega, sorridi, pensami!
Il mio nome sia sempre la parola familiare di prima:
pronuncialo senza la minima traccia d’ombra o di tristezza.
La nostra vita conserva tutto il significato che ha sempre avuto:
è la stessa di prima, c’è una continuità che non si spezza.
Perché dovrei essere fuori dai tuoi pensieri e dalla tua mente, solo perché sono fuori dalla tua vista?
Non sono lontano, sono dall’altra parte, proprio dietro l’angolo.
Rassicurati, va tutto bene.
Ritroverai il mio cuore,
ne ritroverai la tenerezza purificata.
Asciuga le tue lacrime e non piangere, se mi ami:
il tuo sorriso è la mia pace”.
Gli Esseri nella loro totalità tali rimangono anche dopo il ritirarsi dalla vista (quando cioè spariscono ai nostri sensi). Anche se è innegabile la nostra esperienza della “morte dell’altro”, in realtà quando noi vediamo il corpo di una persona che prima era in “vita”, non facciamo affatto esperienza della morte, in quanto la “sua” morte è al di fuori della nostra possibilità di farne esperienza diretta e cosciente.
La vista del cadavere (morte fisica) non è dunque di per sé prova della morte della vita; ossia l’esperienza che io da vivo faccio della sparizione fisica e della dipartita dell’altro, si riferisce solo a ciò che a me appare. Ma poiché, quando si crede che le cose si annientino, è necessario che si creda che non se ne possa più fare esperienza, nulla mi dice della coscienza che rimane di chi non è più in “questa” vita. Essendo cioè, chi esce dallo specchio dell’apparenza, impossibilitato a farne esperienza, si può dire che nessuno fa esperienza della propria morte.
È pertanto impossibile che l’esperienza mostri a quale destino sono andate incontro le cose che da essa sono uscite.
Anche la materia, il corpo (in quanto esistente) non può mai diventare il suo opposto (cioè niente). Se mai, si trasforma, diviene altro, come manifestazione apparente del “divenire del medesimo”. Come spiega la fisica quantistica, la materia diventa luce, energia. Materia e spirito non sono dualità antitetiche, ma due aspetti della stessa realtà, affatto disguidi o separabili (non-dualità simmetrica).
“La materia è lo spirito nella sua concretizzazione più bassa; lo spirito l’elevazione più alta della materia” (H. Blavatsky).
Per il principio secondo cui nessuna cosa può essere altro da ciò che è, ogni cosa è eterna, perché qualsiasi cambiamento la renderebbe diversa da ciò che è. Perché esso sia, ogni Ente (tutto ciò che esiste) implica la necessità che sia eterno.
“Il destino della verità è l’apparire dell’eternità di ogni essente; sì che il venire e l’andare degli essenti, la loro nascita e la loro morte, è il comparire e lo scomparire degli eterni. La loro eternità è la condizione del loro ritorno” (E. Severino).
La morte non esiste
La morte dunque non esiste, è solo la persuasione “dell’assentarsi dell’eterno”. Ma noi, attaccati alla materialità del mondo, non lo “sappiamo”. E di fronte alla possibilità del vuoto, proviamo un angoscia esistenziale intollerabile. Ci ammaliamo, nel corpo e nella mente.
L’idea del nostro annientamento in una sorta di vuoto indefinito ci terrorizza. Il Nulla è la paura estrema dell’Uomo. La morte è temuta perché coinciderebbe con questo nulla, con un salto nel vuoto, senza ritorno.
Tutta la vita “terrena”, inconsapevolmente ma freneticamente, ruota intorno a questo tema, nel tentativo di contrastare questa angoscia esistenziale.
Così ci indaffariamo a riempirci di “tutto”. Più cose possediamo più ci illudiamo di allontanarci dal “niente”.
“Non sono niente. Non sarò mai niente. Non posso volere d’essere niente. A parte ciò, ho in me tutti i sogni del mondo” (F. Pessoa).
Tutte le sofferenze psicologiche sono riconducibili essenzialmente all’angoscia del vuoto, vissuto come annientamento di sé. Non è l’angoscia della morte fisica, ma soprattutto di quella mentale, che corrisponde alla morte del Sé e della propria Coscienza.
È come se, a livello inconscio, si preferisse la sofferenza psichica, che svolge una funzione difensiva e compensatoria a questa angoscia spaventosa, secondo il principio: “meglio essere malati che nulla!”
All’opposto di questa difesa, la sanità mentale si può riconquistare imparando a superare questa convinzione nichilistica, facendo fronte all’angoscia piuttosto che negarla, a partire dal piano cosciente fino a raggiungere quello emotivo più profondo. L’idea che il nostro Sé possa perire e sparire nel Nulla lentamente diviene infondata, da nemica diventa alleata.
Il Nulla non esiste, perché la Vita intera (quella fisica e mentale) non viene dal nulla e non può ritornare nel nulla.
La vita è la manifestazione eterna dell’Essere, che si mostra (o non si mostra ai sensi) come il divenire dei diversi stati dell’Essere.
Pian piano comincia allora a far capolino nella nostra mente, a trasformarsi in comprensione profonda, finché appare come un’illuminazione liberatoria: “meglio nulla che malati!”
Sé e Persona
“È solo dal nulla che nasce la Persona” (D. Lopez)
Liberarsi dalle zavorre della sofferenza, significa allargare il respiro della nostra (limitata) esistenza terrena e materiale, seguendo lo sguardo eterno della nostra anima. Significa affrancarsi dalla materia per elevarsi verso lo spirito.
Il che non vuol dire necessariamente che siamo diventati credenti o che abbiamo abbracciato una religione. Se diventiamo tutti un po’ più “spiritosi” il mondo appare più “leggero”, perché si libera della pesantezza in cui siamo precipitati, con una concezione limitata ed erronea della vita. Possiamo così evolvere con maggiore facilità verso l’origine e il senso vero del nostro essere al mondo.
La costruzione di una identità psicologica salda e coesa passa necessariamente per questo punto nodale. Non possiamo continuamente riempirci di “pezzi”, identificazioni parziali, oggetti interni o esterni che ci rappresentano e ci rassicurano.
Il senso di “vuoto” che è alla base di ogni sofferenza mentale, non può essere riempito di “cose”, oggetti illusori carpiti dalla vita. Nulla “là fuori” nel mondo può placare il “buco interiore”, la sete che sentiamo “qua dentro”, nella profondità del nostro essere al mondo.
Per essere autenticamente noi stessi, per vestirci della nostra vera natura, per accedere al nostro vero Sé, dobbiamo sbarazzarci di tutte le mille sfaccettature posticce in cui ci siamo mimetizzati, dobbiamo “svuotarci” delle nostre finzioni, delle maschere sociali, delle nostre difese e delle illusioni compensatorie.
Dobbiamo oltrepassare la paura del vuoto, correre il rischio di “sentirsi niente”, che è soltanto la percezione e non la realtà della nostra condizione (“mi sento vuoto”, non vuol dire esserlo!). Questo lavoro di “riordino” è essenziale per ritrovare il giusto equilibrio, il nostro baricentro.
Dobbiamo abbandonare il precario rivestimento del nostro falso Sé, indossare i nostri “panni”, per ritornare finalmente nella dimora del nostro vero Essere.
Eternità
Tutto è.
Ciò che è non viene dal Nulla.
E non finisce nel Nulla.
Nulla si crea, nulla si distrugge.
Corpo, Anima, Materia e Spirito.
Tutto evolve.
Con continuità.
In eterno.
Sempre.
Tutto si manifesta
Attraverso la nostra esperienza.
Poi scompare,
Esce dal cerchio dell’apparenza,
Ma permane il medesimo.
Il visibile e l’invisibile si susseguono,
In una danza sincronica,
Misteriosa ai nostri sensi.
Nulla può arrestare il fluire degli eventi
Fermare ciò che deve essere.
Tutto è come è.
Secondo una sola direzione:
l’eterno ritorno.
Secondo un solo scopo:
quello dell’evoluzione.
Secondo una sola logica:
quella della relazione.
Secondo una sola Legge:
quella dell’Amore.
Sii lento e paziente.
Ci vuole tutto il tempo
Per prepararsi a durare in eterno.
(Roberto Calia)
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Circa l'autore:
Dr. Roberto Calia Psicologo Psicoterapeuta Milano